Da nichilista inconsapevole a nichilista pentito? Carl Schmitt e la tirannia dei valori /1

“Sono sempre i valori a fomentare il conflitto e a tener viva l’ostilità”. In questa frase si racchiude il cuore dell’intervento fatto da Schmitt nel 1959 nell’ambito di uno di quei seminari organizzati nella cittadina di Ebrach tra il 1957 e il 1971 dal giurista Ernst Forsthoff, allievo dello stesso giurista di Plettenberg. A seguito dell’interesse e del dibattito suscitati da quel breve intervento poi pubblicato nel 1960 in un’edizione limitata e fuori commercio (uno scritto di soli sedici pagine stampato in duecento copie), Schmitt ritornò sull’argomento ampliando la propria riflessione con una lunga introduzione che dette vita, assieme al testo del 1960, a quell’edizione di Tirannia dei valori che oggi tutti conosciamo e che fu alla base della stessa Schmitt-Reinassance in Italia. Nel 2008 ne sono uscite in contemporanea due nuove traduzioni italiane, una per Adelphi e l’altra per Morcelliana.

Come detto, il saggio schmittiano, sia nella forma breve del 1960 che in quella più ampia del 1967, si concentra sul conflitto tra i valori. Le sue riflessioni nascevano quale commento alla relazione che l’allievo Forsthoff aveva tenuto nel seminario di Ebrach dell’ottobre 1959. Quest’ultimo aveva fatto notare come nella dottrina dello Stato della monarchia assoluta la “virtù” avesse ancora un posto, mentre il sistema di legalità dello Stato di diritto borghese lo aveva rimosso. Come sostituto, Forsthoff proponeva il concetto di “valore”. Ed è su questo concetto che si appuntano le mordaci critiche schmittiane. Il giurista di Plettenberg sosteneva che “valore” era, ed è, un concetto che conduce inevitabilmente alla economicizzazione. Il riferimento polemico diretto era una reinterpretazione del dettato costituzionale della Repubblica Federale Tedesca in termini di diritti fondamentali da intendersi appunto quali “valori”.

Secondo Schmitt, “nell’interpretazione della Costituzione di Bonn i tribunali della Repubblica federale tedesca si sono affidati senza troppi indugi alla logica del valore. […] Un giudice semplice funzionario dell’ordine giudiziario ha invece bisogno di fondare oggettivamente i suoi giudizi e le sue sentenze, e a tal fine gli si offrono oggi varie filosofie dei valori. Ci si potrebbe chiedere se una simile varietà sia davvero in grado di fornire l’auspicata fondazione oggettiva e universalmente persuasiva”. La risposta secca e lungamente argomentata a quell’interrogativo è di segno negativo. Il motivo di ciò sta nel fatto che, quanto meno in Germania – ma il ragionamento intende avere valenza più generale – “cent’anni di rapida industrializzazione hanno trasformato il valore in una categoria essenzialmente economica. Oggi per la coscienza comune il termine “valore” è talmente impregnato di senso economico e commerciale che non si può più tornare indietro […]. L’economia, il mercato e la borsa sono diventati in questo modo il terreno di tutto ciò che si definisce valore in senso specifico”. Dunque, la logica specifica del capitalismo è la logica del valore, ossia dello scambio mercantile.

Schmitt accetta per questa ragione la pars destruens del discorso marxiano, con esplicito riferimento a “La questione ebraica” (1844), ma ne respinge la pars construens, poiché equiparare il lavoro a “valore” non comporta alcun passo avanti rispetto alla concezione capitalistico-borghese del lavoro (proletario) come “merce”. Accetta il discorso marxiano perché, almeno in questo caso, si rivela la constatazione di una realtà su cui certamente il marxismo “può far leva con successo” ma mostrando un’incapacità di fondo a fuoriuscire effettivamente dalla logica economicistica intrinseca all’universo mentale e culturale capitalistico-borghese. La giurisprudenza tedesca del secondo dopoguerra aveva in effetti ripreso tematiche proprie di quella filosofia dei valori che, soprattutto con Max Scheler, aveva ad inizio secolo inteso reagire sul piano filosofico alla crisi nichilistica che aveva sconvolto l’intera cultura europea del XIX secolo. Del resto, la stessa espressione “tirannia dei valori” veniva ripresa da Nicolai Hartmann, filosofo della cosiddetta “teoria oggettiva dei valori” che era stata compiutamente elaborata a metà anni Venti.

La critica schmittiana consiste nel denunciare nella teoria giuridica che stava alla base della giovane Repubblica Federale l’assenza di fondamento oggettivo al pari di quel positivismo giuridico primonovecentesco che si intendeva superare per non ripetere gli errori compiuti con l’esperienza costituzionale di Weimar. Rispetto alla teoria di Hartmann, preoccupata di conciliare la pluralità dei valori con il loro preteso carattere di assolutezza, universalità e necessità, del processo generale di valorizzazione indiscriminata dell’esistenza associata Schmitt coglie le pericolose ripercussioni in termini di fanatismo ideologico.

Al fondo di qualsivoglia valorizzazione sta la volontà di imposizione autoritativa di un punto di vista che si rappresenta come universale e intersoggettivamente valido ma è solo parzialità che viene ipostatizzata. Ne consegue la riduzione a non-valore dei punti di vista alternativi e quindi la negazione di ciò che è difforme. Come osserva Franco Volpi nella postfazione all’edizione adelphiana della Tirannia dei valori, il termine-concetto “valore” è “un vettore di ideologia […] dall’alto tasso polemogeno”. In altri termini, i valori non sarebbero una risposta al nichilismo, nascondendo nella loro genesi la stessa impronta soggettivistica e relativistica.

Non condivisibile, però, ci pare l’invito che Volpi rivolge ai lettori, ossia leggere queste pagine “come fossero anonime” perché, “se non sanno chi scrive”, ai lettori non verrà in mente “di scovare nella biografia, magari nei trascorsi nazionalsocialisti, i motivi per i quali l’autore scrive quel che scrive”. Il tipo di lettura suggerito da Volpi, peraltro acuto esegeta e benemerito divulgatore in Italia dell’opera schmittiana, così come di numerosi scritti di Heidegger e Jünger, non convince. Il motivo sta nel fatto che quell’invito, se accolto, finirebbe per espungere dall’analisi e dalla riflessione del lettore e dello studioso una porzione fondamentale nella vita e nell’opera di Schmitt. Peraltro, stiamo parlando di uno studioso che ha sempre inteso produrre un pensiero capace di mordere la realtà e favorire un certo tipo di gestione politica della società piuttosto che un’altra. Un pensatore a suo modo “engagé”.

Volendoci senz’altro muovere secondo un approccio né tribunalizio né moralistico ma scientificamente “comprensivo”, non si può tuttavia omettere che le pagine vergate dal giurista tedesco tra fine anni Cinquanta e metà anni Sessanta e dedicate alla “tirannia dei valori” giungono dopo oltre quarant’anni di studi e teorizzazioni che avevano dato il loro significativo contributo alla distruzione di qualsiasi possibilità di fondazione metagiuridica. Ammesso e non concesso che la logica del valore sia inscritta nel capitalismo e che la sua natura economicistica abbia introdotto persino nel campo giuridico la massima secondo cui il fine giustifica i mezzi, non si vede in che modo le teorizzazioni schmittiane degli anni Venti e Trenta si muovano in direzione diametralmente opposta ad una simile tendenza.

Se è vero, come ha rilevato Carlo Galli, che il tema dell’“unità politica” costituisce nel sistema concettuale schmittiano – specie nel ventennio interbellico – la categoria sovraordinata e inclusiva della stessa nozione di “Stato”, e che nel partito e nel movimento si individuano gli elementi vivificatori di una struttura statuale che il costituzionalismo liberale aveva svigorito a vantaggio della tecnica e del tecnicismo giuridico, altrimenti definibile come mero proceduralismo legalistico, non si capisce l’effettività e l’efficacia anti-nichilistica del discorso teorico che Schmitt imbastisce fra anni Venti e Trenta. Da parte sua si propone il superamento del sistema rappresentativo liberal-costituzionale mediante il ricorso alla forma politico-giuridica dello “Stato totale”, innesto e sintesi di istituzione statuale e società civile, in modo da allargare quest’ultima fino a ricomprendere l’intero popolo reso omogeneo da una volontà decisionale (e decisionistica) concentrata nel partito e nel suo Führer.

(continua)

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