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La Bellezza ti a(r)ma. Per un’estetica anti-nichilista /2

Gustave Moreau, Orfeo (1865)

La bellezza non è semplice armonia, giusto equilibrio tra gli elementi di un insieme. Questa è semmai la nozione convenzionale che, partendo da Pitagora, Platone ha poi canonizzato con la sua autorità, marchiando l’idea occidentale di bello almeno fino ai romantici. Questi ultimi hanno poi dissotterrato la lira di Orfeo, di colui che ricevette il dono del canto sublime da Apollo, dio della luce, ma che tale dono pagò col viaggio nel regno delle tenebre e con la perdita di un amore assoluto da poco trovato. Perdita subìta due volte e perciò ancora più dolorosa. Orfeo è il simbolo dell’idea eraclitea di bellezza, che Hölderlin recupera nell’Iperione, idea secondo cui l’unità che ha in sé la differenza costituisce il logos del mondo e la sua bellezza. L’armonia sussiste, nascosta e profondissima, ma non ha connotazioni statiche, piuttosto traspare solo agli occhi di chi sa vedere e sentire tra il perenne muoversi e scontrarsi delle cose del mondo. L’importante è non avere anime da straniero, dice Eraclito in uno dei suoi enigmatici frammenti, altrimenti occhi e orecchi saranno “cattivi testimoni” (fr. 107, ediz. Diels-Kranz).

Si tratta di capire allora quale sia l’anima del mondo con la quale accordare le corde delle nostre anime. Ce lo dice o, meglio, ce lo accenna la bellezza delle cose e l’esperienza che ne facciamo. La bellezza non ha sguardi neutrali e può folgorare chi la sorprende tra le pieghe del quotidiano. Generando stupore, persino terrore, essa letteralmente provoca, cioè chiama a sé l’uomo e lo pone di fronte a ciò di cui entrambi sono forma vivente, ossia la verità. Verità che la bellezza non svela nella sua completa nudità, che non sarebbe nemmeno sostenibile da occhio umano, ma la lascia trasparire. L’uomo, però, vedrà quel tanto che basta per attingere il senso del suo esistere, e potrà farlo perché scosso da qualcosa che gli perturba i sensi. John Keats, altro grande poeta romantico, stabilì la seguente equazione: “La bellezza è verità, la verità bellezza” (Beauty is truth, truth Beauty; e prosegue nella sua “Ode su un’urna greca”: “that is all / Ye know on earth, and all ye need to know“).

Correggio, Educazione di Cupido (1527-28 ca.)

Non si tratta però di una identità, ma piuttosto di un rapporto di immanenza reciproca analogo a quello tra anima e corpo. L’anima è il principio generatore che riunisce e organizza le parti di un organismo, dando loro l’impulso vitale, ma il corpo è ciò che dà colore e calore alle vesti diafane e gelide della verità. La bellezza consente all’uomo di approssimarsi alla soglia del vero. Meraviglia e terrore sono gli attributi del bello (che, per Keats, coabita con la gioia e la melanconia) e rappresentano pure la scaturigine della filosofia, intesa nel senso etimologico di amore della sapienza, della verità. Amore, il dio greco Eros, non va però inteso nei termini in cui ce lo ha descritto Platone nel Simposio. Non di Poros (Espediente) e Penia (Miseria) egli è figlio, bensì di Afrodite e di Ermes, secondo quanto ci narra un mito arcaico. Così la condizione di colui che ama non è quella di chi anela alla pienezza e, in cambio, vive la propria lacerazione perché pensa come vero ciò che è solo astrazione, ovvero che la stasi sia il fine (telos, τέλος) della vita. La vita è, al contrario, metamorfosi dell’identico, variazione infinita di un motivo destinato a restare parzialmente ignoto, quasi fosse un mistero sonoro che non respinge ma accoglie.

L’indagine circa le origini di Eros, svelandoci la filiazione diretta dalla Bellezza e dall’Azione, ci dice pure che la verità offrirà lembi delle sue vesti solo agli ignudi che lotteranno perché il bello trovi nuova dimora intramondana e lo evocheranno con canti guerrieri. Questo è l’auspicio di Zecchi, la cui estetica militante si costruisce lungo un asse ideale che congiunge Goethe, Wagner, Baudelaire e D’Annunzio. Estetizzare il mondo: questa è la parola d’ordine mitomodernista, rischiosa da pronunciare nell’epoca in cui trionfa l’estetismo a buon mercato che fa rima con decorativismo. Declinare il rapporto con il mondo in termini estetici vuol dire invece fondare un’etica della nuova alleanza tra forma e significato, tra parola e azione.

La bellezza, fascinosa e traente, ha il potere di spingere l’uomo all’estroversione, di mettere in contatto la sua interiorità con l’esteriorità, dunque con il mondo. Nasce così il dialogo, la relazione feconda e costruttiva in cui l’io incontra il tu e si scopre, acquista un’identità. Identità e differenza istituiscono il mondo delle relazioni, consentono lo svolgimento della vita organica e, nella loro perenne tensione reciproca, conferiscono bellezza alle cose. Ciò che si oppone al dialogo e alla bellezza è l’omologazione planetaria, alimentata dal riduzionismo insito nel pensiero economicista e tecnocratico (per cui utile e funzionale sono i criteri discriminanti). Non a caso, l’omologazione annulla le differenze e sostituisce le identità con i ruoli sociali, forgiando personalità convenzionali.

Dunque amore, bellezza e azione si implicano a vicenda, producendo atteggiamenti di nobile resistenza a ogni livellamento e asservimento politico e ideologico. Come ha scritto Ernst Jünger, un goethiano del Novecento, “quando due persone si amano sottraggono terreno al Leviatano, creano spazi che egli non controlla”. L’arte è l’altra attività privilegiata (perché anch’essa donata più che voluta) capace di reintrodurre la dea scacciata, a patto che abbia il coraggio di pronunciarne nuovamente il nome. L’attività artistica assume pertanto una responsabilità politica, si arroga il diritto di dire quale tipo di mondo vuole abitare, con quali regole e con quali principi.

Teorizzando e praticando in un sol colpo la ricerca e la produzione del vero nel bello, il soggettivismo, “causa principale della malattia spirituale del nostro tempo: il nichilismo”, risulta di conseguenza aggredito nei suoi presupposti ontologici ed etici. Richiamando la prospettiva teologica di Hans Urs von Balthasar, Zecchi sottolinea le possibili alleanze tra il bello e il sacro. Secondo il teologo svizzero, infatti, Dio si rivela secondo modalità che hanno gli stessi caratteri del modo di darsi della bellezza. Questa si contraddistingue per la sua autoevidenza, si impone risplendendo di luce propria, e poi non ha scopo né interesse ma si dispiega sotto il segno della gratuità. Come il mondo delle cose si manifesta nel lumen che “irrompe dal suo intimo”, così Dio si autocomunica al mondo nella “gloria” del Cristo, forma e sostanza inscindibili l’una dall’altra.

Teologia ed estetica, fede e arte hanno la possibilità di essere declinate nello stesso modo, conclude Zecchi, basta unirle nel nome dell’amore. Non si tratta di fare arte cristiana né di adottare precetti evangelici fondati sull’amore universale, ma piuttosto di sacralizzare l’esperienza intramondana, riscoprendo l’eros figlio della bellezza e della poesia (poiesis, Ποίησις, come peculiare forma di azione). L’eros, fedele all’esigenza formale e consapevole del legame con l’altrove che l’arte mitico-simbolica istituisce (perché, altrimenti, avremo un Marcuse con la sua utopia di convivenza “erotico-estetica”), “è una forza eversiva, non si adegua alla pianificazione dell’esistenza prodotta dalla tecnica” e con la creatività artistica condivide un “sentimento di libertà e imprevedibilità”. Come a dire che una vita ritmata dall’amore può sintonizzare mente e corpo sulle frequenze metamorfiche della vita del mondo.

Almeno due sono, però, i problemi che un’educazione estetica mitomodernista deve fronteggiare se vuole dare sostanza alla propria sfida antinichilista. Sono problemi strettamente connessi tra loro. Occorre infatti rieducare le persone ad un pieno uso dei sensi, evidenziandone il valore di ineguagliabile strumento conoscitivo. Siamo nell’epoca della “realtà virtuale” e della mediazione telematica, e certe trasformazioni tecnologiche non lasceranno indenne la sensibilità umana, quanto mai esposta al rischio di anestesia collettiva. Occorrerà inoltre non appiattire l’uso dei sensi né introvertirli, ossia piegarli e ridurli ad una fonte di eccitazione e/o soffocamento interiore, un modo insomma per spegnere ogni scintilla di domanda e anelito fondativo nell’individuo. Estetica, non estetismo. Dunque i sensi come viatico, veicolo a qualcosa di stabile e imperituro che non si sa dire con linguaggio descrittivo, ma si percepisce così forte da rendere urgente il bisogno di evocarlo, almeno, e dunque di dirlo poeticamente.

Al tempo stesso, l’opera di riattivazione di una sana e intensa percezione dell’ambiente circostante dovrà avvalersi di una parallela opera di riforma dello stesso ambiente, sempre più soffocato da cemento, smog e progettazioni urbanistiche brutte, opprimenti e nemmeno funzionali. Il compito è tutt’altro che facile, ha molto del sogno rivoluzionario ma non per questo deve essere abbandonato. Se anche l’interlocutore ideale di Zecchi è una cerchia, necessariamente ristretta, di artisti e filosofi, è chiaro come la battaglia sia da condursi prevalentemente sul fronte della comunicazione e della formazione, dunque sul piano politico-culturale o, se vogliamo, metapolitico.
(2/3. Continua)