L’amore di Piero per la decima musa

Questo è un omaggio ad un amico. Premetto subito, a scanso di equivoci e prevenendo gesti o gestacci a mo’ di scongiuro, anzitutto da parte sua, che l’amico in questione è vivo e più che vegeto, e lotta con noi, come lotta chiunque stia su questa terra e, per dirla proprio con le parole del nostro amico, “pur nelle tenebre consustanziali al mondo creato, riesce ad amare”. L’amico è Piero Buscioni, concittadino, dunque pistoiese come me. Non più tardi di iersera mi fatto dono di un suo libro, pubblicato a fine 2013. Per i miei lunghi soggiorni romani, riesco solo ora a riceverlo e a leggerlo, e sono lieto, più che lieto, di averlo fatto nottetempo. E non troppo tardi.
Si tratta di Parole per un altro amore. Scritti sul cinema (Gli Ori, Pistoia 2013). Il sottotitolo dice molto, ma non tutto. Dentro troverete, e vi consiglio di leggerlo, le relazioni amorose, e come tali non sempre pacifiche e consensuali, nei confronti di una serie di film che non esauriscono l’amore di Piero per il cinema, peraltro inesauribile come la creatività umana che, speriamo, continuerà anche dietro la cinepresa e sul grande schermo da parte di vecchi e nuovi piccoli e grandi geni visionari che la decima musa avrà voluto benedire quali propri fedeli d’amore. Anche gli ultimi Oscar ci hanno segnalato ottimi film, ci ha confermato ottimi registi, segnalato promesse di visione alta e profonda.
Insomma, voglio omaggiare questo amico riproducendone un pezzo tratto dal libro in questione. E non c’è miglior omaggio di quello rivolto a chi può ancora darci pensieri profondi con levità di penna. Grande stile, e lo stile nell’arte è più che forma. È ritmo, è sostanza e non brillante decorazione. È precisione chirurgica, è essenzialità ed altro ancora. C’è molto di tutto ciò in questi scritti brevi e densi. Attendiamo dunque nuove pagine da Piero, dove continui, come ha fatto in questi scritti sul cinema, a renderci esplicita la sua “visione del mondo”. Osando, come spesso qui ha fatto, sfatare luoghi comuni e tabù da benpensati politicamente corretti. Per amore, amore della verità di come le cose sono. Di come gli uomini, le donne, sono. Se vuole, anche questo umile blog può ospitarli, questi scritti venturi. Un abbraccio, DB
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LA BELLEZZA VELATA

Siamo da qualche parte, in America. Siamo in un posto come un altro. Un signore come un altro, di nome Lester Burnham, sta per scoprire che un’infinita bellezza si nasconde sotto l’opaco velo delle cose. Ma ancora non lo sa.
Questo velo e la sua lacerazione è American Beauty di Sam Mendes. Chi di tale bellezza sa già qualcosa è un ragazzo, Ricky Fills, figlio di un ex-marine filonazista e di una madre spettro. Con la sua videocamera Ricky, spacciatore mistico, incide la pelle della realtà e ne cattura scaglie di splendore. Perché la bellezza si nasconde ovunque, perfino in una busta di plastica che il vento fa danzare in compagnia di alcune foglie prima di un temporale, e che Ricky filma; così anche Jane, la figlia di Lester di cui Ricky è innamorato, quella che lui aspettava, può vedere come dappertutto abitino gli dei. Il giorno in cui il ragazzo veggente ha visto danzare quella busta è il giorno in cui ha capito che dietro ogni cosa c’è un’incredibile forza benevola, e che non bisogna avere paura, mai. Anche se a volte c’è così tanta bellezza nel mondo che quasi non riesce ad accettarla, e il suo cuore rischia di franare.
Lester ha naturalmente anche sua moglie. Carolyn. Lady Burnham è un meraviglioso esemplare americano di media età e di sesso femminile costantemente sull’orlo di una crisi di nervi (ogni riferimento ad Almodovar è del tutto casuale dal momento che disdegno il regista spagnolo, pur riconoscendo che è un regista). La piccola Jane Burnham, la cui bellezza umbratile e silente aspetta che qualcuno, che Ricky, la porti alla luce, ha un’amica. Angela, la ragazza che esiste per essere percepita, vera pin-up da allevamento, la cui bellezza è così tanto in superficie che a guardarla ti coglie come una vertigine. La vertigine del niente. La sua è una tipica, scintillante bellezza americana. American Beauty, appunto. La sua più straordinaria dote, a un tempo fisica e spirituale, è senza dubbio la biondità.
È una notte di pioggia la notte finale di American Beauty. Di pioggia reboriana, che cade da cieli distrutti, che feroce lava i selciati. Notte di tragedia e di miracolo, notte tenera e crudele. Notte che smaschera, notte che trafigge. L’ex marine filonazista detesta così tanto gli omosessuali anche perché egli stesso è un omosessuale; Angela, la deliziosa mangiatrice di uomini, la luminescente stellina, è vergine e trema come una bambina quando il corpo di un uomo le si fa davvero vicino. E tutti sono soli, e tutti non hanno che una terribile fame d’amore. È una notte che separa e che unisce. È perfino una notte che uccide, quando la bocca di una pistola si posa sulla nuca di Lester Burnham e uno sparo fende le tenebre di quella falotica, strabiliante notte. Adesso, soltanto adesso Lester sa. Sa che un’infinita bellezza si nasconde sotto l’opaco velo delle cose. E non può provare che gratitudine per ogni singolo momento della sua piccola, stupida vita…

[Piero Buscioni, Parole per un altro amore, Gli Ori, Pistoia 2013, pp. 110-111]

Kevin Spacey in una scena di “American Beauty” (1999)
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