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Delio Cantimori e il fascino della dissidenza

recensione a: Patricia Chiantera-Stutte, Delio Cantimori. Un intellettuale del Novecento, Carocci, Roma 2011, pp. 192.

Con questo libro Patricia Chiantera-Stutte prosegue in un suo personale confronto con la figura umana e intellettuale di Delio Cantimori, di cui ha già scandagliato il pensiero politico e filosofico in età giovanile [Res nostra agitur. Il pensiero di Delio Cantimori (1928-1937)]. L’Autrice dichiara sin dall’inizio di aver adottato in questa sua nuova fatica un approccio “non filosofico”, ma “di storia delle dottrine politiche” (p. 10). A noi pare che si addica meglio al tipo di lavoro svolto dalla studiosa la definizione di “storia della storiografia”, e in questo senso il libro si raccomanda agli specialisti della materia in questione, i quali potranno ricavarne informazioni estremamente utili e non di rado inedite. Il libro infatti si avvale di numerosi documenti poco noti agli studiosi italiani, tra cui carteggi con personalità della cultura storiografica e filosofica di area germanofona e anglofona quali Werner Kaegi e Roland H. Bainton. Si tratta di storici che stimavano molto Cantimori, il quale contraccambiava con analoga considerazione e amicizia i due grandi studiosi.

Stavolta Chiantera-Stutte si cimenta con l’intero percorso biografico e intellettuale dello storico romagnolo, ripercorrendone le tappe fondamentali che ha inteso distinguere in cinque fasi. Se ne ricava la conferma che Cantimori fu almeno per un quindicennio un gentiliano convinto, il che significa che condivise una serie di atteggiamenti morali e intellettuali che dell’attualismo erano una pressoché inevitabile conseguenza. Anzitutto, una determinata concezione della modernità, secondo la quale Umanesimo e Rinascimento si ricollegavano all’idealismo filosofico tedesco dell’Ottocento e a quello italiano del primo Novecento, segnatamente nella versione gentiliana, anche se, ad avviso dell’Autrice, le tracce del magistero crociano ci furono, si sedimentarono e avrebbero agito nel tempo. Condivideva poi il tema della “circolazione europea” del “pensiero italiano”, categoria che possiamo attribuire alla storiografia filosofica promossa da Gentile. Un pensiero nazionale era fiorito con il Rinascimento e nei secoli successivi avrebbe dato frutti in altri contesti nazionali, per poi tornare, per così dire, in Italia e culminare, ancora una volta, con il movimento filosofico italiano contemporaneo. Vi era inoltre la convinzione che il processo storico degli ultimi secoli fosse sostanzialmente un cammino di emancipazione dalla religione rivelata, ovvero si muovesse all’insegna della laicizzazione e immanentizzazione dei principi di condotta individuale e collettiva.

D’altro canto, Cantimori riteneva, in coerenza con l’insegnamento gentiliano, che il fascismo potesse dare vita ad una nuova forma di religione politica adeguata alle esigenze dell’uomo moderno. Ne conseguiva, altro tipico atteggiamento attualistico, una concezione della realtà come qualcosa di fluido e incessantemente diveniente, in cui l’azione umana è capace di inserirsi con efficacia e di trasformare l’ideale in reale, e viceversa. In ciò risiedeva il rivoluzionarismo cantimoriano, che, filtrato dalla lettura gentiliana, ben si conciliava con la giovanile formazione mazziniana che lo storico di Russi aveva ricevuto dal padre e dal contesto familiare e regionale nel quale era nato e cresciuto. C’è una definizione di Chiantera-Stutte che merita di essere riportata, tanto è efficace nel dare l’idea di cosa fosse questa religione politica di cui tanto ha scritto negli ultimi trent’anni la storiografia sul fascismo e sui totalitarismi novecenteschi: “La religiosità è intesa per Cantimori sempre come uno scarto dalla realtà, lo Streben, una tensione emotiva che agisce nella storia – attraverso i giovani nazionalisti o i giacobini – e che non si esaurisce nella loro mobilitazione politica. In tal senso, – prosegue l’Autrice –, la religiosità è contrapposta alla teologia, all’irrigidimento del sentimento verso la trascendenza in strutture e istituzioni” (p. 145).

Questa dimensione del “sentimento” e dell’emotività è particolarmente importante per chiunque voglia tentare di individuare e decifrare quell’oggetto non ancora ben identificato e scandagliato che è l’ideologia fascista. E in questo imprinting gentiliano si può cogliere con maggiore comprensione la radice di molti interessi storiografici di Cantimori sin dai tardi anni Venti, inizio anni Trenta. In particolare, si pensi ai temi dell’utopia e dell’eresia nell’autunno del Medioevo e nella genesi della storia moderna. Su questi temi, com’è noto, Cantimori produrrà studi per i quali ottenne apprezzamenti e riconoscimenti a livello internazionale, anche oltreoceano, consegnandolo per sempre alla memoria dei cultori della storia della storiografia sulla prima età moderna.

D’altro canto, a questa predilezione per uomini e movimenti votati all’utopismo e alla dissidenza religiosa, ma anche alle loro traduzioni in chiave politica (Chiantera-Stutte ricorda l’elogio cantimoriano del rivoluzionario come di colui che ha il “senso concreto della vita politica”), lo storico di Russi unì un altro tratto che era il frutto, forse indiretto, dello storicismo idealistico. Ci riferiamo al sarcasmo per le “anime belle”, per coloro che si appartano dalla storia, poiché non accettano le necessarie e ineluttabili asperità e persino crudeltà del suo svolgimento, che mai è totalmente scevro di conflitti e di violenze. Una sorta di realismo politico che univa Croce e Gentile anche dopo che le loro strade si erano divise, prima sul piano filosofico e poi su quello politico. Un realismo a tratti cinico e impietoso che Cantimori mostrò nel giudizio sprezzante verso studiosi liberali, come Johan Huizinga, magari apprezzati sotto il profilo scientifico, ma aspramente criticati, specie nell’incendiarsi del clima politico internazionale durante la seconda metà degli anni Trenta per il fatto di mantenere una posizione equidistante e fondamentalmente negativa nei confronti delle grandi ideologie totalitarie del periodo tra le due guerre. E a confermare la persistenza dell’originaria impronta idealistica e storicistica vi è il fatto che Cantimori non volle modificare nella sostanza un simile giudizio nemmeno negli anni Sessanta, allorché fu chiamato a pronunziarsi nuovamente sul grande studioso olandese.

Eppure questa profonda impronta gentiliana non fu mai tale da impedire allo storico di Russi di maturare un percorso autonomo, sia come studioso sia come uomo attento a sondare gli umori ideologici e i moti politici del proprio tempo. E anche in questo, verrebbe da dire, si dimostrò vivo e attivo il principio storicistico e immanentistico della verità che si fa e si svela nella storia. Ma non si fermò qui il percorso cantimoriano, e il pregio forse maggiore del nuovo lavoro di Chiantera-Stutte risiede nell’idea, suggerita in tutto il libro ed esplicitata in conclusione, che “si potrebbe guardare all’itinerario politico e ai giudizi di Cantimori sulla storia contemporanea non a partire dalle sue certezze – dal fascismo al comunismo – ma dai suoi dubbi, dai suoi periodi di crisi che sono più numerosi e lunghi” (p. 144). Ed è per questo che le pagine che Chiantera-Stutte ci offre su Cantimori costituiscono un importante tassello della biografia di un autentico “intellettuale del Novecento”. Così recita il sottotitolo, e questa semplice definizione, se accompagnata dall’aggettivo “italiano” – e per vari aspetti potremmo anche aggiungere “europeo” – riassume in maniera molto efficace le peculiarità del percorso di vita e di pensiero di Delio Cantimori.
Peculiarità che sono regolarità e costanti per chi abbia consuetudine di studio dell’intellettualità della nostra penisola e dell’intero Vecchio Continente nel fuoco del secolo ventesimo.

La più ricorrente e distintiva di queste peculiarità dell’intellettualità italiana ed europea primonovecentesca è “l’aspirazione al rinnovamento sociale e morale attraverso la politica” (p. 126). Ciò può comportare l’impegno diretto e militante al servizio di una Causa, con quell’iniziale maiuscola che si addice al misticismo rivoluzionario tanto seducente nei decenni di formazione e maturazione del giovane studioso romagnolo, un ideale da servire stando persino dentro organismi e strutture che operano per la trasformazione dell’ideale in reale. Quell’aspirazione può però essere perseguita anche nel lavoro solerte e diuturno dello studioso che cerca la realtà tramite il documento che certifica l’evento e non l’ideologia che lo giustifica e talvolta persino lo crea artificiosamente. Ma i momenti in cui Cantimori si fa più deciso sostenitore di questa seconda opzione sono quelli in cui agisce soprattutto la sconfitta dei propri ideali, producono il loro effetto quelle “dure repliche della storia” che, ancora assorbibili nei primi anni Quaranta, diventano invece pesanti e contundenti nei tardi anni Cinquanta. La crisi d’Ungheria nel 1956 e la conseguente decisione di uscire dal Pci, senza per questo assumere posizioni dichiaratamente e fattivamente anticomuniste, segnano forse un punto di non ritorno. Ed è in questo periodo che agiscono, o tornano ad agire, nell’animo e nel pensiero di Cantimori gli esempi, umani ancor prima che scientifici, di studiosi come Jakob Burckhardt o Werner Kaegi.

E qui è curioso, ed è un merito di Chiantera-Stutte averlo evidenziato, riscontrare come nell’intimo della corrispondenza epistolare Cantimori mostri di nutrire simpatia, fors’anche di subire influenza, nei confronti di mentalità e pensieri propri di un liberalismo dai tratti conservatori e persino aristocratici. Ed è altrettanto suggestivo ipotizzare come anche in questo caso possa essere riemerso dall’inconscio cantimoriano il rimosso di una giovanile fascinazione per l’aristocraticismo, più politico che estetizzante, di scrittori come Ernst Jünger, Arthur Moeller van den Bruck ed altri esponenti di quella “rivoluzionare conservatrice” (Konservative Revolution) che fu tra i primissimi a studiare e far conoscere in Italia sin dagli anni Trenta. Li amò così tanto che cercò di favorirne la traduzione e pubblicazione persino nel secondo dopoguerra, all’epoca della propria collaborazione e consulenza presso l’editore Einaudi. E anche di questo rende minuzioso conto il libro di Chiantera-Stutte.

Delio Cantimori e Ernesto Sestan (seduti)

Il nodo del passaggio dal fascismo al comunismo resta l’oggetto di analisi prediletto da ogni studioso della vita e dell’opera di Cantimori. Chiantera-Stutte si propone di affrontarlo non prendendolo di petto, ma aggirandolo attraverso il ricorso ad un’analisi filologica molto attenta, che rispetta il criterio cronologico e rifiuta ogni pregiudizio teleologico, ma soprattutto non intende fornire alcuna risposta definitiva. Piuttosto solleva un dubbio che, in chiusura del libro, prende la forma del seguente interrogativo: la biografia politica e intellettuale di Cantimori rivela, al setaccio di un’indagine devota all’acribia filologica, una serie di dubbi e ripensamenti critici che sembrerebbero suggerire che il “non conformismo” e la “non appartenenza” siano la sua “cifra” e quella di un’intera generazione, “che ondeggia fra varie idee e ideologie” (p. 144). Chiantera-Stutte appunto se lo chiede, e aggiunge quest’altra domanda: “Si può accomunare Cantimori con Spirito e Malaparte, due altri esempi di conversioni dal fascismo al comunismo?” (ibid.). L’Autrice non risponde, perché si tratta di interrogativi che aprirebbero ulteriori questioni e inaugurerebbero di fatto un’altra ricerca e richiederebbero infine un altro libro. In sede di recensione è altrettanto impraticabile una risposta esauriente; ci sia consentito però, a mo’ di chiusura, accennare qualche riflessione in merito.

A nostro avviso, non vi è molta affinità fra le tre personalità menzionate da Chiantera-Stutte. Curzio Malaparte partì in effetti da posizioni vicine al repubblicanesimo radicale, incontrando anche uomini e tesi del sindacalismo rivoluzionario, ma la sua vena intellettuale, specie negli anni Venti, si espresse con più profitto nell’invettiva reazionaria. D’altronde, la personalità dello scrittore pratese (di padre sassone) è quanto di più distante si possa pensare rispetto a un Cantimori. Tanto sobrio, austero e severo, anzitutto con se stesso, era il secondo, quanto eccentrico, fatuo e indulgente, solo con se stesso, era il primo. Il passaggio dal fascismo al comunismo di Malaparte è probabilmente da rubricare fra i casi, e ve ne furono moltissimi tra gli intellettuali, di opportunismo e gusto dell’estremismo e dell’eccesso, di posa ancor prima che di pensiero. Più estetico che ideologico. Quanto a Ugo Spirito, l’accomuna forse a Cantimori il fatto che sia anzitutto una forma di coerenza filosofica interna a giustificare e rendere meno sorprendente il transito politico-ideologico dal fascismo al comunismo. Del resto, il discepolato gentiliano è per entrambi un’eredità mai cancellabile, nonostante i più strenui e reiterati tentativi compiuti fra anni Trenta e Sessanta.

Per chi conosca però a fondo l’opera spiritiana, nonché la sua biografia, sa bene che il comunismo di cui il filosofo parla nel secondo dopoguerra è cosa ben diversa da quello ufficiale, fosse esso pensato nella versione sovietica oppure in quella nazional-popolare fatta propria dal Pci. Del resto, Togliatti lo comprese subito e pensò bene di stroncare sul nascere qualsiasi auto-accreditamento del “comunista gerarchico” Spirito quale dottrinario degno di rappresentare l’eredità marxiana. Di qui una durissima recensione uscita su “Rinascita” tesa a demolire ogni pretesa di affinità tra le tesi spiritiane e quelle marxiste-leniniste. C’era però in Spirito una straordinaria e longeva capacità di far proseliti e creare una “scuola” tra gli studenti e gli allievi che fu anche di Cantimori. Anzi, in quest’ultimo fu ancora più forte, sotto certi aspetti, o seppe farsi più coerente e istituzionalizzata, e Chiantera-Stutte ne rende conto citando moltissimi ricordi di storici formatisi a Pisa sotto il magistero cantimoriano.

Come abbiamo suggerito sopra, il sottotitolo del libro dice molto dell’importanza di proporre ancora ai giovani studiosi di oggi una riflessione attorno alla figura di Cantimori, e ancor prima e ancor più se lo si presenta nelle vesti di un prototipo dell’uomo di cultura cresciuto nel clima infuocato e allucinato della prima guerra mondiale e degli anni immediatamente successivi. Detto ciò, resta indubbio che i percorsi politici e ideologici degli intellettuali italiani nei due passaggi di regime fondamentali della storia del Novecento, dallo Stato liberale a quello fascista e dal fascismo alla Repubblica, dovranno sempre essere esaminati caso per caso, e il libro di Chiantera-Stutte conferma la perenne validità metodologica degli studi biografici.

[originariamente pubblicata in «Società e Storia», n. 136, aprile-giugno 2012, pp. 449-452]