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Campana suona Bene

In queste settimane, Rai 5 celebra l’arte di Carmelo Bene in un ciclo di puntate che stanno andando in onda il mercoledì sera. Quattro puntate, per l’esattezza, per altrettanti mercoledì. Un modo per ricordarne l’iconoclastico operare di attore, drammaturgo, regista e scrittore, e quella sua idea di un teatro come “scrittura di scena”, come teatro del dire e non del detto. Teatro dell’invenzione continua, distruzione perenne come il gesto improvvisato e mai ripetuto, del suo praticare il “degenere”, ossia la “destabilizzazione di ogni genere”, sulla scena e fuori, come ebbe a dire in un seminario del 1984. Mistificatore? Genio? Cosa importa quando si è nel campo della “scena”, anche se non è più “messa in..” ma “tolta”, questa benedetta scena? Tutto vale, niente vale, e solo la critica tiene fermo ciò che deve per forza esser mosso. Piacere o dispiacere, denotare senso e significato oppure lasciar muti, decerebrare, anzi “depensare”, importa più davvero qualcosa? Se prendiamo Bene sul serio, restiamone indifferenti. Apprezzerà l’effetto comico, sempre stampella del tragico, che gli rifiliamo voltando le spalle.

Mi piace però ricordarlo associandolo ad una lettura, o fonazione, o phoné o com’altro diavolo avrebbe voluto chiamarla, sempre l’esatto altro di come uno avrebbe voluto presentare la faccenda. Qui dice Dino Campana e la sua “Chimera”. Dino è il poeta che come pochi altri nel Novecento incuba prima figure e suoni che solo poi diventano parole, o le parole in tal guisa prendono in lui sincronica forma. Mi ricorda il grande gallese Dylan Thomas, per modo di procedere e di produrre, intendo. E con entrambi siamo catapultati a cent’anni fa esatti. Dylan nasceva nel 1914, anno in cui Dino pubblicava i suoi Canti Orfici e in essi riluceva anche La Chimera. Carmelo amava dire che suo intento era la ricerca della concentrazione sulla parola per amore della parola e che il dire doveva darsi e dirsi senza altre velleità, più o meno subdole o nascoste.

E dunque l’abbinamento Carmelo Bene-Dino Campana suona come deve. Una Campana a festa, una Campana a lutto. Bene suonaci Campana!!! No, no, ma che dico? Mi piace quando Bene citava Jacques Lacan, quell’altro sulfureo mistagogo parisien, il quale sosteneva che “quando crediamo di essere noi a dire, siamo detti”. Il linguaggio ci possiede, dispone di noi, presuntuosi fino al punto di ritenerci padroni del linguaggio. Bah!! Mi piace questo deragliamento. Degno di quel poeta ebbro sul battello che finì a mercanteggiare, armi incluse (qualcuno dice pure schiavi), tra Yemen ed Abissinia, e che, tutti lo sanno!, aveva avuto il nome di Arthur Rimbaud!! Carmelo Bene replicava duro al filosofo-psichiatra parigino – perché anche Lacan era già al suo cospetto troppo misurato, troppo “borghese” – e rovesciava prontamente: “a Lacan interessava aver articolato l’inconscio come linguaggio. Io parto articolando il linguaggio come un inconscio, ma affidandolo ai significanti e non ai significati, in balia dei significanti…”.

Dunque riformulo la formula, magica anzi no! prosastica, perché tengo fede all’opinione che Herman Melville ebbe a comunicare all’amico Nathaniel Hawthorne in una mirabolante lettera: “È uno spaventoso credo poetico, che la coltivazione del cervello si mangi il cuore. Ma è mia opinione prosastica che nella maggior parte dei casi, in quegli uomini che hanno cervelli fini e ben li lavorano, il cuore scende giù fino alle natiche”. Veramente beniano, e senza teatro, e senza tele-immagini e senza pubblico. Ma stiamo parlando del creatore del “mistico” Moby Dick e di quel teologico d’un capitano Achab totalmente teso a cacciarne l’ “ombra fuggente”. Vero Pavese?

Riformulo infine la formula e introduco esclamando: Campana suona Bene!!!

Ascoltate cliccando sul titolo della poesia e ascoltate Bene Campana…:

LA CHIMERA

Non so se tra rocce il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera

DINO CAMPANA (1885-1932)