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Giuseppe Dossetti e il ripensamento del cattolicesimo politico

Recensione a: Giuseppe Dossetti, Gli equivoci del cattolicesimo politico, a cura di Alessandro Barchi, Bologna, il Mulino, 2015, pp. 252

Nell’aprile del 1962 Giuseppe Dossetti tenne una relazione dal titolo “Riflessione religiosa e teologica sul problema dei rapporti Chiesa e Stato”. Un documento rimasto inedito fino ad oggi, e riportato all’attenzione degli studiosi grazie alla cura editoriale di Alessandro Barchi. 1962: l’epoca è cruciale per i destini del cattolicesimo, italiano e mondiale. Siamo alla vigilia del Concilio Vaticano II, ovviamente, ma anche agli esordi del primo governo di centrosinistra, momento di svolta importante per la nostra storia nazionale, e non solo dal punto di vista politico. E qui l’intervento di Dossetti risulta spiazzante per chi lo ricorda come fautore di un cattolicesimo politico impegnato nel rinnovamento del paese, esempio per un’intera generazione di laici che, tra primo e secondo dopoguerra, avevano animato l’associazionismo ecclesiale e il passaggio dal popolarismo sturziano alla Democrazia cristiana.

Prima del contenuto, esaminiamo il contesto nel quale venne presentata questa relazione. Si tratta di un convegno tenuto a Villa Cagnola, in provincia di Varese, tra il 24 e il 26 aprile 1962. Era stato organizzato dall’Istituto Superiore di Studi Religiosi, struttura da poco costituita nell’ambito della diocesi di Milano, realtà ecclesiale che più di altre in Italia risentiva del fermento religioso e politico in atto all’inizio degli anni Sessanta. Tema scelto dai promotori era appunto il rapporto tra Chiesa e Stato, e l’intento nemmeno troppo nascosto era quello di comprendere, da parte dell’allora arcivescovo ambrosiano, Giovanni Battista Montini, le possibili e necessarie mosse affinché la Chiesa potesse mantenere, nel mutare dei tempi e delle forme, una forma di assistenza al partito dei cattolici e, per esso, all’intero paese.

Dimessosi da consigliere comunale a Bologna il 25 marzo 1958, dopo aver lasciato nel 1953 la carica di deputato, Dossetti, abbandonata dunque ogni funzione politica, è ordinato sacerdote l’anno successivo, nel 1959. Con ciò, non aveva smesso di riflettere sulla presenza e il ruolo della Chiesa nel mondo, dal momento che era stato perito conciliare di uno dei padri più influenti del Vaticano II, il cardinal Giacomo Lercaro, e aveva quindi assolto alla funzione di provicario generale della diocesi bolognese nell’immediato periodo post-conciliare. All’indomani delle dimissioni da deputato, inoltre, aveva dato vita al Centro di Documentazione per le Scienze Religiose a Bologna. Ma già da molto tempo Dossetti era alla ricerca di quale potesse essere il miglior contributo che un cristiano e cattolico potesse dare alla (ri)civilizzazione di un mondo che si era perduto gravemente tra le due guerre mondiali.

Già all’indomani delle elezioni del 2 giugno 1946 egli era convinto che la cattolicità italiana si trovasse in una condizione di “minoranza”. Dossetti era piuttosto critico nei confronti della Chiesa italiana che gli pareva ben poco consapevole della grande trasformazione in atto. Quel che è stato definito come il tentativo di “occupazione egemonica” della DC sarà tentato da Dossetti fino al 1951. Ed è qui, e nel suo lascito, che è sorto, a detta di Barchi, “il grande equivoco” del cosiddetto “dossettismo politico”, “vissuto sempre in difficile equilibrio fra radicalismo sinistrorso e tentazione integralistica” (p. 34) da parte di chi ha inteso richiamarsi al suo esempio e alle sue idee.

Per comprendere a pieno la nuova e diversa impostazione che Dossetti aveva ormai maturato nel 1962, ossia nell’intervento al convegno di Villa Cagnola, c’è una conversazione, anch’essa opportunamente pubblicata in questo volume, tenuta nel settembre del 1957 ai giovani della GIAC (Gioventù Italiana di Azione Cattolica). Qui Dossetti dichiarò che il “laicismo” effettivamente pericoloso per la Chiesa italiana è quell’atteggiamento, che avrebbe poi chiamato anche “semipelagianesimo”, in base al quale si assegnerebbe un peso (merito) eccessivo all’azione nel processo di sanazione cristiana del mondo. Si trattava, in fondo, della presunzione, diffusa in ambito cattolico nell’immediato dopoguerra, che fosse possibile la (ri)conquista cristiana dello Stato e della società. Disorientati dalle tragedie belliche, società e Stato si sarebbero conformati ai dettami della Chiesa. Dossetti ricordava invece come il potere fosse una forza, un “terribile mistero”, che richiede “virtù straordinarie”, senza le quali esso finisce inevitabilmente per corrompere anche coloro che sono mossi dalle più pure e benevole intenzioni. Nulle, ad avviso di Barchi, sarebbero state ormai nella riflessione dossettiana le concessioni al personalismo, tanto nella versione di Maritain quanto in quella di Mounier, entrambe ritenute venate di quello stesso laicismo che si intendeva combattere.

A trattenerlo dalla fuga dalla politica ancora per quasi tutti gli anni Cinquanta sarebbe stata l’avversione al disegno della Chiesa cattolica, avallato da Guido Gonella e Luigi Gedda, di fare della DC il difensore di quel che, presentato come “liberalismo cattolico” o “cattolicesimo liberale”, nient’altro era, a suo avviso, che clericalismo e una forma di neointegralismo. Difficile chiarire i contenuti filosofici, teologici e soprattutto ecclesiologici del pensiero di Dossetti così come andò maturando nel corso degli anni Cinquanta. Nel rapporto tra Chiesa e Stato l’invito era a non vedere più quest’ultimo come un nemico, “un antagonista – scrive sempre Barchi – alla ‘sovranità’ spirituale di Cristo Re sulla storia, e neppure inglobarlo in una visione pessimistica e catastrofistica, tipicamente agostiniana, della città dell’uomo come massa damnationis, ma non significa neppure vederlo ottimisticamente come luogo permeato di bene comune ‘infravalente’ [espressione maritainiana, ndr.]” (p. 39). Se non si fosse compreso che la città, anche laddove fosse stato davvero possibile cristianizzarla, non era ancora il regno di Dio, si rischiava di sopravvalutare l’efficacia dell’azione temporale. E, con ciò, di fraintendere il messaggio evangelico. Sul piano storico si poteva diventare attivi portatori di effetti cristianizzanti se ci si fosse mostrati in grado di incarnare a pieno la dimensione eucaristica della vita ecclesiale. La missione del laicato cattolico non era quella della consecratio mundi, secondo la tesi a cui restava fedele l’amico Giuseppe Lazzati, anch’egli tra gli eletti alla Costituente e poi docente all’Università Cattolica di Milano.

Eppure, sottolinea Paolo Pombeni nel saggio di commento storico-politico incluso nel volume curato da Barchi, Dossetti non intese mai rinnegare niente del suo passato, consapevole sin da giovanissimo di come la stessa conoscenza delle Sacre Scritture non fosse esente da una possibilità, del tutto naturale, di evoluzione del pensiero. Quel che si era approfondita era la consapevolezza che, come tale, la “democrazia cristiana” nel mondo secolarizzato post-bellico era impensabile, essendo il cattolicesimo diventato una “minoranza” in Italia, e tale ancor più sarebbe stata con l’ingresso nella Comunità Europea. Sempre Pombeni non esita a definire Dossetti un “riformatore cristiano” nel senso di Lutero e di quell’ampia ondata di rivolte religiose che fra XV e XVI secolo erano sorte contro la secolarizzazione della Chiesa di Roma (p. 186).

Giuseppe Dossetti (1913-1996)

Nel richiamare, in quel convegno del 1962, i “cattolici militanti” a sostituire l’impegno politico con la testimonianza di una vita interamente dedicata all’imitazione di Cristo, il sacerdote reggiano non aveva pretesa alcuna di rivolgersi, tanto meno di imporsi, alle masse. E, in fondo, non aveva a cuore neppure quel che il titolo assegnatogli per la relazione gli avrebbe dovuto imporre come tema di riflessione, ossia il problema dei rapporti fra Stato e Chiesa. La possibilità o meno di una “politica cristiana”, ovvero del rapporto che il credente deve avere con la sfera politica: questo era il vero tema che stava a cuore al Dossetti del 1962.

A dispetto di chi riteneva fosse ancora possibile fare dello Stato italiano postbellico almeno una parziale realizzazione del regno di Dio, il sacerdote reggiano apprezzava da un lato il processo di “democratizzazione” in quanto “popolarizzazione” delle istituzioni politiche e della società, dall’altro, però, non faceva coincidere tale processo con una “cristianizzazione” della sfera politica. Il mondo rimane “altro” rispetto al messaggio evangelico, e tale alterità è ineliminabile. Sbagliavano perciò le gerarchie cattoliche a pensare che, tramite il controllo del partito di governo, fosse possibile mantenere la società cristiana. Illusione fuori dalla realtà, nonché tradimento rispetto alla vera missione evangelica. Lo avrebbe ribadito in una controversa e discussa intervista rilasciata a Paolo Glisenti, pubblicata su “Panorama” nel 1972, dieci anni dopo il convegno a Villa Cagnola: “in Italia ormai non c’è più nulla da fare”.

Dalla lettera di San Paolo ai romani si ricava, sì, il principio del rispetto per l’autorità costituita, ma si ribadiva anche che questa è soltanto la fonte di una regolamentazione “altra”, esterna rispetto agli autentici valori cristiani di un credente. Le regole del potere temporale hanno sempre una giustificazione contingente, e l’ubbidienza ad esse non si trasforma nell’adesione ad un valore di verità. In un passaggio del suo intervento, Dossetti era ancor più radicale: “mi sembra che una civilizzazione cristiana non possa essere secolare” (p. 95).

Se per Benedetto Croce, sulla scia di Hegel, l’elemento di novità introdotto dal cristianesimo era stato l’affermazione dell’autonomia della persona, per il sacerdote bolognese la novità del cristianesimo “in modo assoluto” era la rivelazione secondo cui “Cristo è il Signore. […] è il Creatore ed è l’unico Salvatore del mondo” (p. 111). Non vi sono mezzi termini, come insegna il capitolo ottavo del vangelo di Giovanni (8, 24): “Se non si crede che egli è ‘Colui che è’ […]non c’è altro” (ibid.), commenta Dossetti. E concludeva eloquentemente il suo intervento nei seguenti termini: “la festa, oggi, in Italia, si santifica meno di quel che si santificasse sotto il regime precedente. E abbiamo degli uomini di professione cattolica, al comando del nostro paese! […] La domenica è fatta per pregare. Non è fatta per discutere, principalmente nelle piazze. Notate bene che io non dico mai queste cose come esclusive: non sono degli “aut aut” che pongo; cerco solo di invertire dei rapporti” (p. 164). L’obiettivo era dichiarato: “ristabilire tra di noi, prima di tutti, il senso del sacro” (ibid.).

Le premesse di questo discorso affondavano in quel revival culturale cattolico maturato nel decennio 1930-40 all’insegna dell’“umanesimo integrale” di Jacques Maritain e del “personalismo” di Emmanuel Mounier, riferimenti filosofici quanto mai influenti per lo stesso Dossetti, seppur riletti, e secondo alcuni fraintesi, in chiave originale. E forse non del tutto abbandonati, così come invece ritiene Barchi nell’introduzione al volume. Era d’altronde Maritain a sostenere che “lo stato d’animo democratico non solo deriva dalla ispirazione evangelica, ma non può sussistere senza questa”. L’onda lunga del tormentato e turbolento ventennio intercorso fra le due guerre mondiali si è protratta ben oltre gli anni Sessanta, e forse se ne odono ancor oggi echi di risacca.