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Gian Giacomo Menon (1910-2000), magister

di Cesare Sartori
con la collaborazione e il contributo di Giuliano Abate e Gabriella Burba

Quanto pesa il manuale?

«Quanto pesa il manuale di filosofia, anzi di storia della filosofia?»: questa era la domanda con la quale, invariabilmente, Gian Giacomo Menon cominciava la lezione introduttiva del corso in prima liceo. Avverto in voi un moto di stupore, identico a quello nostro di allora. Quando fece quella domanda d’esordio apparentemente insensata e bizzarra, ci guardammo tra di noi sconcertati e perplessi, qualcuno perfino ridacchiò. Ma non c’era affatto ragione di stupirsi. Che fanno infatti il bravo artigiano, e l’artista prima di cominciare a costruire/creare le loro opere, o il chirurgo prima di puntare il bisturi? Esaminano e controllano gli strumenti di lavoro, gli attrezzi del mestiere nonché i materiali su cui dovranno lavorare: li «prendono in carico». Ebbene, la prima lezione di filosofia con Menon consisteva proprio in questo: nella presa in carico del 1° volume del manuale come oggetto, come involucro e contenitore le cui caratteristiche esteriori e formali venivamo sollecitati a considerare e valutare accuratamente e in dettaglio prima di addentrarci nel contenuto: titolo, autore (-i), casa editrice, numero delle pagine, anno di edizione, eventuali errori o refusi di stampa (eravamo caldamente e insistentemente invitati a trovarli!)…

Poi, quando si passava al contenuto, di nuovo esso veniva definito e per così dire «misurato» in termini quantitativi. «La filosofia antica comincia a pagina tot e finisce a pagina tot; in totale occupa tot pagine, che divise per il numero complessivo di ore del corso annuale, fanno tot pagine all’ora; la filosofia antica comincia nel 585 a.C. e finisce nel 529 d.C. La filosofia medievale comincia nel 529 d.C. e finisce nel 1453».
Tutto ridotto a termini elementari ed essenziali, ostentatamente semplici e perciò assimilabili come dati certi, non suscettibili di letture vaghe o interpretazioni confuse ed equivoche. A noi il compito di leggere le 4-5 pagine di ciascun segmento della materia per conto nostro, a casa, e alla successiva ora in classe prendere l’iniziativa della presentazione di specifiche «richieste di spiegazione», per le quali si era invitati a fare apposita «domanda». «Domande! Fate domande!»: questa era, invariabilmente, dalla prima alla terza liceo, l’esortazione con la quale Menon chiudeva ogni sua lezione. E la «domanda» doveva seguire un preciso rituale, da rispettare come quando si riempie un modulo prestampato, identificando innanzitutto – con l’indicazione del numero della pagina e del paragrafo o della riga – il punto esatto del testo che ci era risultato incomprensibile o non chiaro.

La lezione come sacra rappresentazione

Il nostro approccio allo studio della filosofia veniva così fin dall’inizio guidato lungo un itinerario strettamente regolato: in primo piano c’è l’allievo che affronta da solo il testo del manuale e deve accettare e abituarsi all’idea di essere lui il soggetto attivo, lui che con le proprie risorse deve misurarsi con l’oggetto da conoscere e che, inevitabilmente, si trova e si troverà sempre di fronte a punti oscuri o ad ostacoli alla comprensione, lui che deve comunque saper consapevolmente «identificare». Quindi, l’allievo fa domande. E di fronte a lui c’è l’insegnante, che «risponde». «Spiegare» per Menon equivale a «rispondere» . «Trattare la materia» equivale a «partecipare alla ricerca della soluzione di un problema» il cui contenuto è stato in qualche modo posto, colto, percepito, intuito dall’alunno. A quest’ultimo, anche se non sempre se ne rende conto, spetta, nella sacra rappresentazione, il ruolo di attore protagonista.

Descritto così, lo schema della lezione di filosofia risulta un gioco con poche semplici regole, che costringono i giocatori entro ruoli fissi rigidamente determinati: è così perché, con Menon, per poter cominciare a parlare di filosofia è necessario che il terreno su cui ci si muove sia accuratamente circoscritto; e che la posta in gioco, la materia da trattare, sia prima di tutto misurata quantitativamente.

Menon «recita» il suo ruolo servendosi di testi «facili» e si diverte a disegnare alla lavagna schemi elementari di inquadramento temporale e tematico dell’oggetto di studio. Lo fa consapevolmente, per una scelta di metodo «tattica»: si parte da premesse semplici e si rimane aderenti a nozioni elementari, ma questa apparente semplicità rende poi possibile lo svolgimento e il dipanarsi di una trama libera, che ripropone ogni giorno in modo imprevedibile l’esperienza originale di un incontro e di un dialogo alla pari tra un insegnante/mago da una parte e allievi più o meno ingenui dall’altra.
La scenografia è essenziale e molto simbolica: l’insegnante ogni giorno si cerca un posto tra gli allievi, non li guarda dalla cattedra né passeggia avanti e indietro tra i banchi spiegando e pontificando. No. Menon si siede fisicamente vicino a uno o una di noi, scegliendolo/la di solito per la posizione centrale; e «si pianta» tra i banchi come il perno della giostra che sta per iniziare a girare. Sta sul nostro stesso piano e sembra che voglia sfidarci, offrendosi come un bersaglio, a nostra totale disposizione. Pretende «soltanto» – e non è certo pretesa da poco – che le domande e le osservazioni siano poste in modo rigoroso, nel rispetto di una severa disciplina formale, che scopriamo essere scientificamente studiata. In questo modo, ottiene che si creino le condizioni elementari di «sicurezza» per potersi lanciare in quel numero impegnativo che sta per iniziare.

Come una cordata alpinistica

«Sicurezza»: come fa una guida alpinistica, nell’intraprendere una scalata alla testa di una cordata di principianti, sapendo che ogni salita ha le sue insidie per tutti, lui per primo. Una volta fissata «la sicurezza», la guida comincia ad avanzare, ad arrampicarsi, prima piano saggiando il terreno, poi con sempre maggiore scioltezza, sempre più in alto. Sembra assorto, nella sua arrampicata, ma ogni tanto si rivolge verso i suoi giovani compagni, invitandoli con lo sguardo a seguirlo. Loro non parlano, sono attenti e concentrati, ‘calamitati’ letteralmente dai suoi movimenti agili, precisi e sicuri; mentalmente li registrano, pensano che prima o poi saranno loro a doversi mettere a loro volta alla prova. Si sale, così, di lena e quasi senza soste per un’ora intera, ma con quella guida l’arrampicata è leggera, non ci si rende conto dello sforzo. Anche lui sembra divertirsi, lo si intuisce qualche volta dallo sguardo compiaciuto e un po’ beffardo che rivolge di tanto in tanto a quelli che gli tengono dietro con maggiore prontezza, che sembrano apprezzare di più l’itinerario che quel giorno ha scelto di fare. Ogni giorno un itinerario simile, eppure sempre diverso, sempre originale, sempre inaspettato. Niente di banale o ripetitivo. È un allenamento costante, quotidiano, metodico, condotto con straordinaria serietà anche se si mantiene quasi sempre su percorsi apparentemente facili, sembra voler evitare passaggi troppo impegnativi e rischiosi. Ci sarà tempo anche per quelli. La guida non lo dice ma lo fa capire: oggi non ve li godreste, sarebbero una fatica inutile senza la soddisfazione di arrivare in cima, imparate prima a saggiare bene il terreno, a familiarizzarvi con ogni genere di ambiente e di tempo e, seguendo le mie raccomandazioni, godetevi anche tutto quello che di più interessante si offre nel panorama che ci circonda.

[…] L’insegnamento di Menon era un quotidiano allenamento a difenderci da pressapochismo, superficialità, approssimazione, incompetenza, faciloneria, furbizia… Uno stile di insegnamento in perfetta e piena sintonia con gli apoftegmi e le massime di vita che ci elargiva ad ogni lezione: uscite dal gregge e dalla massa, siate egregi e non gregari, siate individui e autentici, conoscete voi stessi, non siate velleitari, non siate frettolosi nel dare giudizi ma praticate l’ἐποχή che per lui non significava atteggiamento scettico, distaccato bensì al contrario corretto avvicinamento all’autore e al testo, testimonianza di autentica e rispettosa comprensione. E poi, soprattutto, osate e rischiate sempre in nome della conoscenza, non fate come il George Gray di Spoon River che per paura del dolore, degli imprevisti, degli inganni dell’amore non ebbe il coraggio di alzare le vele della vita e di prendere i venti del destino e si ridusse a condurre un’esistenza senza senso torturato dall’inquietudine e dal vano desiderio.

[…] Una cosa comunque è certa: durante le sue lezioni non ci si annoiava, alle sue lezioni era difficile restare indifferenti. Un’ora con Menon poteva aprire un mondo; le sue lezioni erano avventure, incontri, esperienze intellettuali ed emotive profonde. Le sue lezioni erano boccate di ossigeno, di aria fresca e nuova; assistervi era come risvegliarsi ogni volta sotto l’effetto di quel benefico e vivificante «vento di primavera» di cui parla Nietzsche nella Gaia scienza.

È accertato che in ognuna delle classi in cui ha insegnato – in 40 anni gli sono passate per le mani almeno due generazioni di studenti friulani – Menon ha suscitato grandi innamoramenti e passioni (con e senza virgolette!), soprattutto da parte delle sue giovani allieve. L’insegnante è sempre anche uno showman e «in ogni docente efficace e carismatico si cela sempre un attore, un professionista più o meno riconosciuto dell’eloquio e del gesto». Il rapporto maestro-allievo presenta sempre aspetti rischiosi: un professore ispirato, un maestro carismatico tengono in pugno lo spirito dei loro allievi e «i pericoli e i privilegi sono sconfinati». Ogni incursione nell’altro (s)confina con l’erotismo e lo innesca. Una lectio magistralis, un corso, un seminario, perfino una conferenza possono generare un’atmosfera satura di tensioni erotiche. Platone non ci ha forse avvertiti tanto tempo fa che non si apprende se non per via erotica? Un desiderio di compiacere il maestro è evidente sia nel Simposio sia nell’Ultima Cena.
[…]

Confrontarsi con l’eccellenza

Chi ha avuto Menon come insegnante ha avuto una fortuna, quella di trovarsi a contatto con il riverbero di una mente sopraffina e di alto livello. Tutti noi abbiamo sperimentato direttamente la ‘minaccia’ che tale contatto costituiva, ne siamo stati in qualche modo ‘infettati’ perché è noto che l’eccellenza può dimostrarsi spesso brutale e che confrontarsi con essa è un agòn, un pòlemos. A scuola come nella vita. Dopo quel contatto, però, molti di noi non hanno più potuto dimenticare né quella luminosità né quel riverbero né quella ‘minaccia’. Forse sono inattivi e silenti quei germi, quegli agenti dell’infezione, ma sono sempre lì, in agguato, annidati in noi e pronti a balzar fuori. E molti di noi ex allievi ancora oggi sono fieri di essere ‘sopravvissuti’ alle sue lezioni. Quando sei stato esposto a quel virus – anche Menon ci trasmetteva quella contagiosa ‘malattia’ che Melanie Klein ha chiamato epistemofilia -, non importa quanto a lungo, te ne rimarrà sempre un riverbero, uno stigma. Per il resto della tua carriera e della tua vita privata, magari del tutto normali, magari banali e prive di distinzione, avrai sempre, come avverte George Steiner, «una protezione contro il vuoto». Considero un privilegio l’essere stato uno dei suoi allievi. E consapevole di quello che mi ha dato, del debito che ho nei suoi confronti, a ognuno dei miei tre figli, quando hanno fatto il loro ingresso alle superiori (quella fase che corrisponde probabilmente alla più importante, formativa e magica stagione della vita), ho augurato soprattutto una cosa: di avere nella loro vita scolastica almeno un insegnante, fosse pure uno solo, come la Giulia Terzaghi di Massimo Recalcati, il John Keating dell’Attimo fuggente o il professor Menon della sezione A dello Stellini.
[…] La scrittrice statunitense Dorothy Parker ha scritto che «per conservare qualcosa, bisogna averne cura». Io, con Menon, ho cercato di farlo per quanto mi hanno consentito le mie deboli, inadeguate e periferiche forze. […]
Menon – era nato a Medea, in provincia di Gorizia nel 1910 quando lì era ancora territorio austro-ungarico ed è morto a Udine nel 2000 – ha insegnato storia e filosofia allo Stellini ininterrottamente per 30 anni: dal 1939/40 al 1967/68. «Per me andare a scuola a insegnare era una festa», ha lasciato scritto in un appunto quando era già vecchio. Per la società civile e scolastica del tempo Menon era un «sovversivo» e costituiva uno «scandalo»: controcorrente, anticonformista, provocatore beffardo (qui riaffiorava sempre l’ex futurista e dadaista che c’era in lui), eccentrico, anticonvenzionale, irrispettoso, snob, istrione, narciso, a volte crudele e feroce, maschilista, manipolatore…: lo si può riconoscere un po’ in ognuna di queste definizioni, ma nessuna di esse da sola è esaustiva, nessuna da sola può pretendere di definirlo; sono tutte vere ma incomplete.
Oltre che insegnare, l’attività che più lo ha impegnato per tutta la vita fu scrivere poesia: ne ha scritte oltre 100mila, ben più di un milione di versi, quasi tutte inedite. La poesia è stata l’unica amante alla quale rimase fedele per tutta la vita.

[Il testo, di cui qui si riportano ampi brani, è stato presentato e letto da Cesare Sartori il 25 marzo 2015 presso la Scuola Superiore dell’Università di Udine, in occasione di un incontro in ricordo di Gian Giacomo Menon, che di Sartori è stato professore di storia e filosofia al liceo classico “Jacopo Stellini” di Udine. La prolusione recava originariamente questo titolo: De Ioanne Iacobo Menone, magistro (Epistula ad alumnos lycei Stellinii et utinensis studiorum universitatis). Ringrazio l’Autore per la gentile concessione].

Gian Giacomo Menon (primavera 1954, II A Liceo classico Stellini, Udine)

Alcune poesie di Gian Giacomo Menon

geologia di silenzi
il mare fermato nelle conchiglie
i fuochi nella terra
anni o secoli il tempo della nostra pietà

l’altrove dei giorni
pozzi di erba nessuno specchio di luna
ed era ieri l’incontro di carissime mani
palestra della mia forza per cortili obbligati
campo liberato di passeri

scambiati zodiaci
sostituite corde del cielo
è passata una luna ebra di danza
tagliente nelle sue falci
verde scarlatta candida rigata di nero
un’altra luna è venuta
giusta nelle sue gobbe absidi e nodi
rotonda di stupori
bilancia di giusto mezzo
bere i suoi chiari silenzi

terra lenta dell’erpice
fatiche di una vita
si scardina il sasso dalla zolla
nello spavento della locusta
invidia di più forti ali
e l’erba resta sospesa nel vento
questa stagione di prove
non si appoggia a stelle matematiche
impotenti nei giri assegnati
contro il caldo furore del sangue
che tira il grido dalla sua parte
e ogni perdizione
non confondermi nell’istante della resa
non giudicarmi se l’occhio si fa vetro
sulla parete offesa dalla rinuncia
tutto umano è il piede
che incontra il suo ostacolo
il braccio che decide di abbassare lo scudo

nido del sagittario
un grillo ha cantato
non più di un bisbiglio
nella pena dell’essere

tagliarti a metà frutto di luna
nella tua pietra
oltre la scorza azzurra
luce rubata alla pelle
non credere alle parole
rimbalzate dai miei silenzi
mi pesa nella mano il tuo seme
svelato da una lama di vento

non chiedere il cedro alle colombe
alta coppa di venti prima dell’autunno
mutevole stagione dell’occhio
dove le ciglia resistono alla palpebra
peso di amare lumache
rugiada di ombre sotto le uve
soli convulsi sfrangiano la pelle delle foglie
il primo tralcio caduto stride al passo del carro

averti come i lunghi odori della terra
nell’alba degli aratri
quando l’allodola scrive la sua prima parola
come il fresco sapore del pane
quando la falce riposa all’ombra dei gelsi
averti intatta nell’infanzia
quando il campanile divide
il giorno della locusta dal giorno del grillo
a tessere i soli e le stelle

§§§
Ritorno
Mia stanchezza, distenditi sul prato,
morbida e calda coltrice di sole:
piano ritorno dentro l’increato
sazio alla fine di aride parole.

E non mi duole più l’acuto iato
tra conoscenza ed essere, parole,
segni per me senza significato
nella smarrita estasi del sole.

Bevo alla fonte mistica dell’uno,
del quale sono un povero frammento,
eppure un tutto, pallido nessuno.

Nell’aria il fumo indugia, poi si sperde
con un fluttuare di velami lento:
l’anima si confonde con il verde.

§§§

io so la figura
ed è ape e gheriglio
mio immobile tempo
non casuale di occhi
saltuario di labbra
dove termina il gioco
l’alienarsi delle mattine
fruizione di stanche maschere
e noi a pesare l’essenza
le bilance alchemiche
mercurio e fuoco zolfo e sale
misurati sulla tua pelle

la solitudine dentro gli occhi
e tu fermavi le lune
io le volevo nel fondo
e si compisse la legge e il deserto
i rovi macerati dal vento
le pietre spaccate
e quelli che cercano l’acqua
e restano arsi all’orlo dell’uomo
oscuro pozzo di fango

solitudini dimenticate dal tempo
oggetti di fredda forma
ritagliati nel niente
e l’uomo si dissolve
puro di trascendenze
un cuore sotto vetro
tu a percuotermi in foglia
inesatto di linfe
restituito alla terra
dove appari imprevista
casuale di labbra e di mani

la pioggia ha lavato la pietra
le artemisie bruciate
nessuno ritorna alle terre rosse
l’assenza è un nido ferito
e il lepre è stanco di affidare alla luna
il nome della sua pena

libertà dalla pioggia e dal vento
quando la parola non è foglia
pietra articolata di silenzi
un solo nome la scrive
che nessun occhio decifra
nessun labbro ripete

l’acqua più amara dei covoni
roste per guanti nudi
innocenza di trappole
immergersi dentro la luna
cognizione del fondo
i covili del pesce
e tu lenta come una tinca
più scaltra del luccio
eludi le reti e la lenza
[agosto 1968]

§§§

con te mia piccola terra
con te mia piccola terra piccoli campi piccolo fiume
piccola casa piccolo monte con te dove sono nato
piccola vita piccolo uomo con te e sarà piccolo il mio
luogo di te oh sarà breve il mio luogo corta
pietra corte radici corta erba che cresce in
soli non miei
(1)

mia terra vengo
mia terra vengo mia terra e tu madre mi attendi
tu erba mi copri tu cielo sei alto e lontano oh
mia terra odiata ed amata mia terra dove è
l’amore questo amore cattivo che mi esalta felice
che mi uccide con spade
(8)

mio amore mia terra
mio amore mia terra mi penetri spada e radice
erba nera sopra di me scura parola dentro di
me
(10)

dirò la morte
dirò la morte griderò l’amore vi chiamerò mie
spade ah spade d’amore di morte oh mie
spade felici mio anno felice miei giorni felici
(15)
[1° gennaio 1994]