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Come essere conservatori nel terzo millennio

Recensione a: Niccolò Mochi-Poltri, Società. Divenire storico e conservazione, introduzione di Franco Cardini, Nazione Futura, Roma-Cesena 2018, pp. 121, € 13.

Assai spesso si sente parlare della gioventù odierna con toni che vanno dal biasimo alla commiserazione. Elementi fattuali non mancano per alimentare giudizi di segno negativo. Ogni volta che si ascolta o legge notizia di giovani che sbagliano, immediatamente mi chiedo però chi sono stati gli adulti dietro e intorno a loro, se ne hanno o meno accompagnato un processo di crescita. Per fortuna non esiste solo la cronaca che i mass media prediligono: quella nera, anzi nerissima. Esiste la vita di tutti i giorni, in cui hai l’occasione di incontrare e conoscere ventenni nelle cui passioni intravedi il senso compiuto di alcune riflessioni che José Ortega y Gasset vergava tra 1929 e 1931.

Scriveva il pensatore spagnolo, rispondendosi alla domanda “che cos’è la vita?”: «Affermo, quindi, che io ora sono insieme futuro e presente. Questo mio futuro esercita una pressione sull’ora e da questa pressione sulla circostanza scaturisce la mia vita presente». E concludeva, provvisoriamente: «io sono chi inesorabilmente esige d’essere realizzato, quantunque sia impossibile la sua realizzazione = io sono… vocazione».

Come insegnante ho il privilegio di incontrare tali vocazioni, e di provare ad intuirle, suscitarle, rafforzarle. Perché è così che si semina il bene di domani. Che è bene nella misura in cui si afferma la costruzione contro la distruzione, il vivo pensiero storico contro l’immobilismo di una ragione spenta, l’entusiasmo creativo contro la rassegnazione e l’apatia.

Tra i vari incontri che incoraggiano a ben sperare c’è questo testo di piccolo formato, ma che racchiude molta generosità di pensiero e desiderio di comprensione delle radici del proprio tempo. L’Autore ha 27 anni. Si chiama Niccolò Mochi-Poltri. Sin dal titolo del libretto si chiariscono i termini delle questioni che ne hanno motivato la stesura: la genesi e il destino della società, di ogni società, sono racchiusi tra divenire storico e istinto di conservazione. Racchiusi come dentro un campo magnetico, qualcosa capace di trattenere a lungo una forma, ma sempre a rischio di perdere presa, disgregarsi, spegnersi.

Questo libro è un vademecum, letteralmente. È un invito dell’Autore ad iniziare un percorso insieme al lettore, che gli è interlocutore ideale (a partire dall’amico scomparso, Marco Mungai, destinatario di una bella dedica iniziale). Si parte dunque dall’origine, com’è naturale e giusto che sia. Da dove nasce una società? Niccolò Mochi non ha dubbi: dagli individui che le compongono. E qui si pone una prima premessa in termini di individualismo metodologico. Ma si precisa: «le società non esisterebbero se le persone non vivessero in gruppo». Il destino delle società è strettamente legato a quello degli individui che quel gruppo costituiscono, animano, lievitano.

Mochi è dichiaratamente un conservatore, e così non può che precisare quasi subito che «i cambiamenti, di per sé, non hanno valore positivo – così che possano averne negativo». Prende così avvio un ragionamento serrato, che capitolo dopo capitolo, con stile asciutto e sintetico, procede con l’intento di svolgere una dimostrazione more geometrico.

Anzitutto, le società sono «strutture reali e concrete relative alle persone che vivono in gruppo». Queste – «per necessità, per utilità o per circostanze specifiche – si ritrovano a vivere in gruppo» e «devono organizzare la propria convivenza». Il fattore organizzativo è dunque prioritario. Richiama pertanto il concetto di “ordine”, ma non statico, pena l’impossibilità di ogni società a durare nella storia. Dinamico, persino elastico, questo è l’unico ordine storicamente possibile, dunque effettivamente esistente. Dunque le società sono strutture «dinamiche e proteiformi», in quanto «soggette alla legge del divenire, proprio come ogni altro prodotto dell’ingegno umano», il quale spinge sempre verso «la complicazione».

Le strutture societarie vanno intese in modo non meccanico, bensì «organico», in quanto i modi e i movimenti di adattamento al divenire storico non sono per niente prevedibili, poiché «riconfigurano continuamente il sistema stesso». Ancor più nettamente, e con maggiore inquietudine, si deve tener conto che «il sistema si trasforma insieme al movimento stesso, ciò significa che il sistema potrebbe anche estinguersi nel movimento». Com’è possibile? Possibile, anzi probabile, se le persone che compongono la società ad un certo punto non riescono più a trovare elementi sufficientemente validi e solidi sui quali organizzare la convivenza. Lo stare insieme pretende sempre un “perché” iniziale, con tanto di risposta data subitaneamente e coralmente. L’esaurimento delle società, con conseguente estinzione, non è ipotesi assurda. Remota, magari sì, ma non assurda.

Mochi è anche un elitista. Ritiene che, già al primo crescere di livello della complessità di una società, si renda indispensabile «lo sviluppo di una categoria sociale che sia specializzata nell’organizzazione della convivenza e nella gestione del divenire». E usa per essa il termine di “classe politica”, con evidente eco della lezione di Gaetano Mosca. Su questa scia Mochi rivaluta la politica, intesa come agire che ha la propria ragion d’essere nel sapere, potere e dovere affrontare le problematiche che sorgono dalla dinamica convivenza umana. La presenza di una classe dirigente, anzitutto nel cuore pulsante di una società, ovvero nella politica, è esigenza consustanziale a che una società esista e persista.
Intervenire e dirigere sono compiti essenziali a che qualsiasi consorzio umano possa sussistere. Si tratta pertanto di far fronte agli ineludibili processi di trasformazione a cui ogni società è sottoposta nel tempo.

Qui emerge il nocciolo della questione e il secondo punto chiave del testo di Mochi: stabilire lo statuto teorico e pratico del conservatorismo politico. Due sono i modi principali con i quali una classe politica può guidare i processi di trasformazione sociale: assecondandoli oppure ostacolandoli. Il primo è atteggiamento tipico dei politici “progressisti”; il secondo specifico di quelli “conservatori”. Ed ecco il punto: cosa significa “conservare” alla fine del secondo decennio del ventunesimo secolo? Non certo una situazione sociale anteriore al cambiamento, poiché il divenire storico è incessante e non procede per salti tra fasi statiche, immobili e impermeabili come compartimenti stagni. Inoltre società diverse si incontrano, si scontrano, entrano comunque in contatto tra loro, e di conseguenza mutano più o meno profondamente, più o meno rapidamente. Di sicuro ogni società conosce periodi di maggiore e minore stabilità, e compito di una politica conservatrice è assicurare la persistenza di una società. Perché ciò avvenga occorre che «le varie istituzioni e istituti che assicurano la convivenza tra gli individui, cioè i vari usi e costumi, le istituzioni religiose e civili, etc.», siano in grado di adattarsi ai mutamenti in modo tale, però, da non compromettere quel che Mochi chiama l’«essenza» della società: ovvero la possibilità di organizzare la convivenza tra gli individui.

Alberto Savinio, Il naviglio perduto (1926)
Alberto Savinio, Il naviglio perduto (1926)

Il divenire storico è minaccia costante che non può essere negata, o rimossa. Sarebbe pia illusione, quasi delirio allucinatorio. Può solo essere guidato, diretto con precise intenzioni. Deve esserlo, altrimenti si farà politica progressista, ossia tale da favorire il divenire storico nella sua potenza dissolvente. Dunque, l’essenza di una società è ciò che deve essere trasmesso da una classe politica che sia autenticamente conservatrice. La tradizione è termine qui inteso come l’insieme di condizioni che consentono ad una società di scampare alla minaccia dissolvente del divenire. L’ostacolare proprio del conservatore consiste pertanto nell’attenersi all’etimo del verbo: creare degli ostacoli, porre dei limiti. Essere, in una parola, freno in funzione di una preservazione dell’essenziale che ha dato, e solo parrebbe dare, quella determinata convivenza umana organizzata. All’origine vi furono la condivisione della pratica di certi usi e l’adozione di certi costumi. Perché poi il tutto sussistesse e prosperasse è stato necessario che di quelle istituzioni e di quegli istituti, sulla cui base si è organizzata la convivenza, si accettasse l’esistenza e si riconoscesse la validità. E tale necessità non cessa mai, pena l’estinzione della società in questione.

Per esplicitare meglio il proprio pensiero, credo che Mochi avrebbe tratto giovamento dalle riflessioni di Ortega y Gasset, già prima ricordato. Nel penultimo capitolo della sua celebre opera La ribellione delle masse (1930), il filosofo spagnolo mette in chiaro la nozione di Stato, ovvero di società organizzata. Merita un’ampia citazione:

La realtà che chiamiamo Stato […] non è la spontanea convivenza di uomini che la consanguineità ha unito. Lo Stato nasce quando gruppi originariamente separati e distinti si costringono a convivere tra loro. Questo obbligo non è nuda violenza, ma presuppone un progetto attivo, un compito comune che si propone ai gruppi dispersi. […] Lo Stato non è consanguineità, né unità linguistica, né contiguità d’abitazione. Non è nulla di materiale, d’inerte, di prestabilito, di limitato. È un puro dinamismo – la volontà di compiere qualcosa in comune –, in virtù del quale l’idea statale non è circoscritta da nessun confine fisico. […] Questo è lo Stato. Non già una cosa, ma un movimento.

Anche questa definizione non è esente da implicazioni problematiche, persino pericolose, se declinate in senso nazionalistico, e, come sappiamo, non era questo l’intento di Ortega, né è quello di Mochi. Si pone però la questione di quale sia l’oggetto di quel plebiscito di ogni giorno che, per Renan (e per Ortega), è la nazione che, facendosi così Stato, definisce quotidianamente anche se stessa. E lo fa proprio perché si dà una forma. L’importanza del progetto, dunque. Di una “missione”? Mazzini aveva posto il termine, e l’annessa questione. Nel Novecento il termine è stato abusato, pervertito. E così oggi appare irrimediabilmente compromesso, inservibile. Però resta il nodo cruciale: rispondere a cosa siamo, al perché stiamo insieme. Ed è solo un’immagine di noi proiettata nel futuro che può aiutarci nelle risposte. Ma prima le domande: quale vocazione per questa data comunità? Perché essa merita di sussistere anche domani?

Probabilmente non basta solo la sete di futuro ad alimentare vocazioni che diventino concreti programmi di governo. Occorre anche una certa dose di ammirazione per il proprio passato, e a seconda di cosa selezioneremo di quel passato capiremo di quale futuro vorremmo vivere. Se costruttivo, o distruttivo. Forse sta qui il senso di quella “tradizione” evocata anche nelle pagine di Mochi. Una trasmissione che sia funzionale al futuro, alle sfide che il divenire storico incessantemente pone, e che non sono tutte imprevedibili, specialmente se si ha costante cognizione di quel che siamo, di dove veniamo.

Mochi scrive che l’ubi consistam delle società risiede nell’accordo preliminare sugli elementi formali (istituzioni sociali e istituti giuridici) da adottare e condividere. È evidente che anche questi elementi si modifichino nel tempo, ma non tutti e non del tutto. L’Autore concede al divenire il massimo possibile, ma non fino al punto di contravvenire al suo intento, che è quello di mostrare il significato e la funzione, sempre attuali, di una politica conservatrice. Se c’è qualcosa che ha fatto sorgere e durare una società a petto del divenire storico, quel qualcosa deve persistere. Spetterà dunque ai politici conservatori «discernere e selezionare quegli elementi formali che consentono alla società di sussistere lungo il corso del divenire storico». In questo sta la sua più gravosa responsabilità: saper comprendere l’essenza della società in cui vive e di cui è chiamato ad assumere la guida.

Che cosa si sottrae al divenire storico? Qui Mochi si richiama esplicitamente agli studi del cardinale nonché storico delle religioni Julien Ries, a sua volta ispirato dall’opera di Mircea Eliade. Ciò che dunque permane è una dicotomia antropologica fondamentale, quella tra homo religiosus e homo laicus. Si tratta di due attitudini costitutive della persona, «due modi d’essere nel secolo, due situazioni esistenziali assunte dall’uomo nel corso della storia». Il primo è «quel soggetto antropologicamente disposto a percepire ciò che è stato chiamato il numinoso, ovvero ad avvertire la presenza e la necessità di qualcosa di extra-personale ed extra-corporeo, di immateriale e quindi di spirituale» (il riferimento dichiarato è al pensiero di Rudolf Otto). Ne consegue un’antropologia estroversa, ovverosia disposta naturalmente verso ciò che è altro e diverso da sé. Il laicus va qui inteso come l’esatto opposto del religiosus, del naturalmente disposto a concepirsi come parte di qualcosa di superiore, ulteriore, in ampiezza, altezza e profondità. Niente di tutto ciò per l’homo laicus, introverso nella misura in cui si pensa come principio primo ed ultimo dell’esistente, e il suo ripiegamento lo conduce ad una visione materialistica e solipsistica della vita e di sé.

Su questa dicotomia, Mochi costruisce anche la propria concezione di cosa siano destra e sinistra, sempre in un’ottica antropologica, come si trattasse di modi d’essere originari, prepolitici e universali. Il conservatore di destra ne risulta la figura logicamente più coerente. Sarà colui che si impegnerà nella vita pubblica per trattenere e preservare gli elementi formali che richiamano l’essenza numinosa della società. Questo modo di argomentare consente all’Autore di non scendere sul terreno scivoloso di quali siano, nel dettaglio, gli elementi formali da conservare, ma suggerisce che è valido e meritevole tutto ciò che aiuta attitudini antropologiche che potremmo definire anagogiche, inclini a risalire alle cause prime, sempre pensate come esterne e superiori alla natura umana, che pertanto è indotta a pensarsi come creata, limitata e, tanto necessariamente quanto felicemente, relazionale. Tradizione e civiltà sarebbero pertanto riassunte da un ordine di convivenza in cui la predisposizione al numinoso è quantomeno diffusa e incoraggiata.

Il punto più debole del ragionamento di Mochi sta nella parte conclusiva, là dove si introduce la distinzione, resa nota da Isaiah Berlin, tra “libertà da” e “libertà di (o per)”. L’Autore la reinterpreta in funzione del suo discorso sulla dicotomia antropologica tra il conservatore di destra e quello di sinistra. Il passaggio dedicato a questo punto è troppo sintetico, fino al punto di esser contratto, e non risulta chiaro il nuovo uso, che vuol essere personale e creativo, della dicotomia berliniana. In non pochi casi concreti, la “libertà da” potrebbe rivelarsi assai meno conservatrice della “libertà per”, e l’emancipazione dal numinoso, che par di intuire essere fondamentale motivo di allarme per l’Autore, cova maggiormente nel primo tipo di libertà, che non nel secondo. Conservare oggi potrebbe richiedere, in non pochi casi, robusti e prolungati interventi, e non solo limitazioni e non-interferenze. Queste pagine conclusive meritano dunque ulteriori ripensamenti e approfondimenti.

Un’ultima nota. Saltate a piè pari l’introduzione a firma di Franco Cardini, noto medievista di indubbio valore. Tanto supponenti, contorte e sterili sono le sue pagine introduttive, quanto umili, lineari e feconde sono invece la prosa e l’intenzione che animano l’Autore. In altre parole, si tratta di un non infrequente caso di introduzione fuorviante e disincentivante. Ciò mi conferma del fatto che non si debba disperare affatto dei giovani d’oggi, e che piuttosto si debba chiedere a noi adulti di essere all’altezza della primavera che essi incarnano. Aiutiamoli a fiorire.