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Il fiat lux della politica moderna

Recensione a: Carlo Galli, Sovranità, il Mulino, Bologna 2019, pp. 154, € 12.

È lo stesso autore a dircelo: «La tesi di questo libro è che la sovranità è una tematica ineludibile, e che – se l’Italia non vuole sperimentare la “non-sovranità in un solo Paese” – va trattata seriamente, in chiave storica e politica, e non con anatemi» (p. 147). Lo dice in conclusione di un sintetico ma quanto mai intenso e denso saggio sul concetto filosofico-politico più controverso del momento: la sovranità, appunto.

Tiranneggia il dibattito pubblico un termine equivoco, improprio: “sovranismo”. Tiranneggia e inquina le menti e le azioni pubbliche, dunque politiche. In nome di una riaffermazione dello Stato di diritto, costituzionale e rappresentativo, democratico e liberale, chi abusa del termine “sovranista” come epiteto insultante nega, di quello stesso Stato, il presupposto vivificante e finisce per proporre rimedi peggiori dei mali. Pur difficilmente riducibile ad una formula, in quanto concetto storico, la sovranità è anzitutto, e in prima approssimazione, «il modo in cui un corpo politico si rappresenta (o si presenta) per esistere, per volere, per ordinarsi e per agire secondo i propri fini, nell’epoca moderna in cui l’ordine politico non è più legittimato da fondamenti tradizionali» (p. 12). Là dove il peso della tradizione si alleggerisce, fino ad evaporare, ecco che l’auctoritas (ciò che fa crescere un corpo politico che già esiste, strutturato da usi, costumi, pratiche rituali condivise ancestrali) si eclissa, e al suo posto subentra la sovranità che quello stesso corpo politico, venuto meno o profondamente disgregato, lo fa esistere.

Se ne deduce immediatamente il fatto che modernità e sovranità sono un tutt’uno nella storia politica europea, poi occidentale. Nella misura in cui le società tradizionali arretrano fino a scomparire, un tale binomio è diventato anche extra-europeo. Forse che oggi la Cina non è sovrana nel suo spazio di super-Stato a dimensione, estensione, imperiale? Non si può pensare all’esistenza politica post-tradizionale senza pensare alla sovranità. Quest’ultima, a sua volta, è un concetto esistenziale e dunque aperto sulla contingenza. Nella storia politica contingenza vuol dire rischio, violenza. Sovranità è forza ordinante, nomos, che contiene al suo interno un’anomia di cui non ci possiamo liberare. La politica, ama ripetere spesso Galli citando Truman, è quella dimensione dell’agire umano in cui finisce lo scaricabarile. Prima o poi i nodi vengono al pettine, e la politica presuppone quei nodi, esistenzialmente ineludibili, pena estinzione dell’esistenza umana stessa. Senza nodi è condizione paradisiaca, angelica, non umana.

In ciò si esprime l’essenza del realismo politico di Carlo Galli. È qui evidente la lezione di Carl Schmitt, di cui lo studioso modenese è da molto tempo in Italia uno dei massimi studiosi e interpreti. Un interprete che lotta per piegare, o meglio: mantenere piegata in senso democratico, una forza ordinante costitutivamente polemogena, ospitante conflitti che trattiene. Se lo fa mediante la Costituzione democratica, «la circolazione del logos è presupposta, come riconoscimento reciproco delle parti, come partecipazione politica e come responsività dei poteri» (p. 69). Si sbaglia fortemente chi ritiene che la democrazia implichi la fine della sovranità, della soggettività politica collettiva. Si pensi soltanto alla Costituzione italiana, alla seconda parte del suo primo articolo: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Limiti intesi ad incanalare e imbrigliare persino, ma certamente non a rendere impotente, tanto meno a cancellare. Si tratta di affermare e garantire un’autonomia collettiva, una «signoria su se stessi» (p. 70), di tutti e di ciascuno, a contenimento e contrasto di altre signorie, come quella del mercato capitalistico finanziario, ad esempio. E se «è verosimile, anche, che la protezione della società dal mercato non sia più integralmente a disposizione degli Stati; ed è certo che il sovranismo è per ora una ricerca di protezione senza proiezione, senza un’idea sviluppata e coerente di politica», resta altrettanto indubbio che «proprio dalla modestia di cui i popoli si accontentano si capisce la grandezza di ciò che hanno perduto: benessere, democrazia, prevedibilità dell’esistenza, lo stesso sogno europeo» (p. 140). Pertanto, si può ragionevolmente affermare che «è dal fallimento della UE, dal suo interno squilibrio politico, che nasce il sovranismo; ed è quindi errato sostenere che i sovranisti siano i disturbatori di un processo costituente in atto, o i sabotatori di una sovranità europea già esistente» (ibid.).

Ricapitolando: la sovranità è una cosa seria; non esiste politica senza sovranità; non esiste vita umana senza politica. Per esistere politicamente si devono attivare meccanismi di volontà, di unificazione, di decisione e di assunzione del rischio. L’ordine è un’esigenza più che un dato, una costruzione. Rovesciando logiche apparentemente lineari e indiscutibili, Galli sostiene che la politica non è la dimensione in cui si risolvono i problemi, ma è esattamente la dimensione in cui i problemi appaiono. La sovranità è la somma di questi problemi e la consapevolezza di essi. Galli ha di mira i neoliberali, coloro secondo cui l’ordine sarebbe espressione di un’istanza costruttivista, in fondo autoritaria. Il caos sarebbe solo apparente e le forme si produrrebbero naturalmente, lasciando liberamente le cose (to let things go). Niente fondo tellurico, alcuna possibilità di anomia, conflitto, scivolamento verso l’informe, secondo la prospettiva neoliberale stigmatizzata e avversata da Galli. Un’utopia fondata sulla estinzione della politica.

Spoliticizzazione non comporta assenza di gerarchia e leadership: «La Germania ha un’idea di Europa come di uno specchio nel quale possa vedere solo se stessa» (p. 136). Esiste pertanto la gerarchizzazione dell’Europa, Stati più sovrani e Stati meno sovrani, se così si può dire. L’europeismo di maniera rischia di danneggiare l’Europa. La federazione sovrana è possibile, in astratto. Ciò però comporta avere una politica estera e di difesa comune. Ciò richiede, in ultima istanza, un atto costituente. Per essere democratico, deve fondarsi sulla volontà popolare. Dai diversi popoli italiano, tedesco, greco, francese, etc., dovremmo passare al “popolo europeo”. Passaggio di non poco conto, per usare un eufemismo: è necessaria una sorta di “We the People” europeo, un potere costituente su scala continentale. Un comune atto di volontà da immettere dentro un ente unificato e – con e dopo tale atto – unificante, espresso simultaneamente, o quasi, da 27 soggetti sovrani nazionali che parlano altrettante lingue diverse tra loro (per la precisione, 24 lingue ufficiali). 27 soggetti che, d’un tratto, dicono un solo, univoco, onnicomprensibile e dunque monolinguistico “Io esisto”. Un io collettivo, un “noi” se preferiamo, ma il senso non cambia. Poi si può pronunciarla in modo aggressivo o in modo civile, ma una tale affermazione resta necessità primaria e insopprimibile.

Per Galli un super-Stato europeo, una federazione sovrana, non è dunque soluzione praticabile. Ma in questo consiste la proposta di chi, in nome dell’anti-sovranismo, ripete come una litania la formula degli “Stati Uniti d’Europa”. D’altro canto, le sovranità sono sempre precedute da un momento di rottura violenta, come rivoluzioni, guerre civili, guerre di liberazione, collassi di sistemi istituzionali. Nessuna sovranità è nata a tavolino, come progetto di fusione a freddo, costruita sulla sola aggregazione di interessi economici. La storia non ci offre notizie in merito. Se si sta al mondo, si corrono i rischi di questa presenza, di questa esistenza, che è originariamente conflitto e che può diventare cooperazione, ma solo sovranamente, ossia volendolo. È su questo punto che Galli insiste con forza.

La dicotomia europeista vs sovranista non può che aver vita breve, o sarebbe bene che così fosse. Galli rivendica non solo la legittimità, ma la logicità di dirsi tanto democratici quanto sostenitori della sovranità, e di smentire chi oggi, pur su posizioni politicamente affini alle sue, almeno a parole, afferma che il vero democratico non può che essere globalista, cosmopolita, sicuramente anti-sovranista. Con quella contraddizione, poi, che abbiamo visto annidarsi nell’idea di una federazione europea.

Nessun governo europeo vuole andare al di là della propria sovranità nazionale. I “sovranisti” sono già al potere in Europa, in ogni singolo Stato che compone l’UE. Macron è il più macroscopico in tal senso, forse, ma gli spagnoli hanno mostrato di esserlo parimenti. Anche i tedeschi, Merkel o no, lo sono altrettanto visibilmente, persino vistosamente in certi casi. È questa la considerazione che Galli ci suggerisce.

In linea teorica si possono costruire sovranità territorialmente più vaste. Si veda la Cina, ad esempio. Ma dobbiamo essere consapevoli che, se si vuole passare ai fatti, una sovranità europea presuppone un superamento di quelle nazionali da parte dei singoli Stati componenti l’UE. Questi o commettono un suicidio o subiscono un omicidio da parte di movimenti transnazionali che sopprimo una sovranità, quella nazionale, per partorirne un’altra, quella europea. Questo il rigore implacabile, schmittiano, del ragionamento di Galli, il quale ci ricorda che l’UE è un insieme non-sovrano di Stati sovrani che hanno rinunciato ad un solo pezzetto della sovranità, quella monetaria (non quella fiscale, ad esempio, da esercitare però senza quella monetaria). Al contrario, gli Stati Uniti sono una federazione sovrana di Stati non sovrani. Dire “più Europa” significa passare dall’UE ad un’entità che potremmo chiamare SUE (Stati Uniti d’Europa).

Altro punto: il rapporto tra economia e politica. Tanto per i neoliberisti quanto per i mondialisti no border e «moltitudinari» (p. 138; il riferimento implicito è a Negri e Hardt) esisterebbe solo il capitale mondiale. Per gli uni è bene, per gli altri è male, ma entrambi sostengono che non esisterebbero più Stati sovrani. E in questo convergono perfettamente. Così dicendo, però, non si capiscono le guerre commerciali fra Usa e Cina. La realtà presente è ben diversa, pertanto, e fa dire a Galli che non esiste un capitalismo come soggetto unico collettivo svincolato dalle sovranità nazionali. Tuttora il potere si concentra politicamente in spazi. Semmai, nella prima modernità le economie si esprimevano dentro gli Stati, oggi dentro l’economia si esprimono gli Stati. Vi sono sovranità economiche così come sovranità politiche. Vi è un capitalismo americano, uno cinese, uno tedesco, uno francese, e così via enumerando. Il potere ultimo, comunque, resta quello politico, sempre ammesso che di quello Stato possa dirsi che è sovrano. E ce ne sono ancora di Stati in tal senso, pienamente tali, a tutti gli effetti. La nuova potenza mondiale a cui tutti guardano con curiosità mista a timore, la Cina, è l’esempio per eccellenza. La norma può anche essere data dalla preponderanza dell’economico-finanziario, ma l’eccezione, o il caso speciale, trova sempre pronto l’intervento del politico. Situazioni in cui la sovranità si risveglia e si fa norma, silenziando tutto e tutti. Lo fa esponendosi al rischio, dimensione rimossa per molto tempo in contesto europeo (assetto bipolare durante la Guerra Fredda, dove si è vissuto di sovranità traslata e riflessa, che fosse statunitense o sovietica).

In conclusione, Galli ci offre una risposta netta alla domanda sul perché il dibattito politico contemporaneo europeo – e non solo – ruoti attorno al concetto di sovranità. Il progetto di costruire un’unione degli europei attorno al capitale è fallito, poiché il mercato non è ente soggettivo che si assume responsabilità. Finché queste non erano richieste ai governi europei (grazie, ad esempio, allo scambio warfare per welfare tra Stati Uniti ed Europa occidentale tra 1945 e 1991) ci si è potuti cullare nell’illusione di un mercato quale forza unificante e cogente. Non è più stato possibile proseguire in tal senso quando i problemi sono stati lasciati a noi europei in gestione, diretta e senza tutori. Il mercato è ciclico, ora cresce ora decresce, ma la società deve continuare a vivere nel frattempo. È in questo frangente che la politica, sotto forma di Stato, è chiamata in causa, anche confusamente, sempre rumorosamente, tanto più acuta si fa sentire la crisi di quello stesso mercato. Una domanda di protezione, di intervento, governo e modulazione delle dinamiche economiche e sociali acceleratesi, degenerate o degradate, comunque fuori controllo (disoccupazione, flussi migratori, etc.). Una richiesta di messa al riparo. Senza assunzione di sovranità, a quella chiamata non si dà risposta, efficace ed efficiente. Come compiere una tale assunzione, e come farlo senza esporsi fuori misura al rischio che essa sempre comporta (il lato, o fondo, oscuro della sovranità), è la vera questione sul tappeto. Ma, senza ulteriori dilazioni, è di questo che il pensiero e la pratica politica degli Stati europei devono tener conto, su questo devono riflettere ed agire.

[Si anticipa qui un testo che uscirà nel prossimo numero (2/2019) del semestrale «Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee» (Aracne editrice). Gran parte del numero sarà dedicato al tema «Populismi o nuovi nazionalismi?»]