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“Ciò che è vivo e ciò che è morto del Dio cristiano”. Intervista a Danilo Breschi

A proposito del volume di D. Breschi e F. Felice, Ciò che è vivo e ciò che è morto del Dio cristiano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2021, pp. 108, € 13,00.

Prof. Danilo Breschi, Lei è autore con Flavio Felice del libro Ciò che è vivo e ciò che è morto del Dio cristiano edito da Rubbettino: che rapporto esiste tra religione cristiana e identità europea?

L’identità europea ha riguardato popoli che hanno abitato nei secoli un medesimo territorio, lo hanno trasformato, organizzato, cercando equilibri stabili in mezzo a tensioni e conflitti costanti. L’identità europea non è altro che la storia di questi popoli. L’appartenenza, declinata necessariamente al plurale, definisce chi sono. È nelle relazioni con gli altri, singoli o gruppi, che si costruiscono le identità. Mi comprendo nel fronteggiare, in modo ostile od amichevole, gli altri. Gli altri contribuiscono a determinare il noi. Non basta il passato, certo, a dire chi siamo, perché la dinamica relazionale si dipana nel tempo, incide sul nostro presente quotidiano e risente fortemente dei progetti che elaboriamo per il futuro. Dunque, nella storia degli europei c’è anche la religione cristiana, con un peso ed un ruolo di estrema importanza. È uno di quegli elementi che possono far parlare di un’unità nella diversità a proposito dell’identità europea, sfuggente nei suoi contorni.
Sin dalla sua comparsa nel continente il cristianesimo ha influenzato le vicende politiche, sociali, economiche e culturali. Il riconoscimento giuridico da parte dell’Impero romano è stato il momento chiave. Da allora in poi storia d’Europa e storia del cristianesimo si sono intrecciate in vario modo, con varia intensità, ma è certo che la civilizzazione europea è il frutto di un’ibridazione cristiano-pagana. Pensiamo soltanto al ruolo multiplo di testimonianza, conservazione, ricostruzione e trasmissione svolto dal monachesimo tra il IV e l’VIII secolo di fronte all’urto delle invasioni barbariche. Non sottolineeremo mai abbastanza l’impatto culturale, in senso antropologico, che ha avuto la regola benedettina: ora et labora. L’invenzione di sistemi di convivenza in cui si coniugavano preghiera e lavoro. Saper leggere e saper lavorare la terra: una severa ma corale disciplina che ha forgiato un tipo umano decisivo per lo sviluppo successivo della civiltà europea. Un misto di comunitarismo, rispetto per la personalità umana e valorizzazione delle capacità individuali che ha dato vita ad una rete di realtà istituzionali e produttive, i monasteri, autonomi e collegati, se non federati. L’intelaiatura dell’identità europea comincia a formarsi nella seconda parte del primo millennio, ne getta le premesse, sviluppatesi e consolidatesi nei successivi cinquecento anni.
Poi, come ha scritto Paolo Prodi, «le guerre di religione fanno parte anch’esse delle radici dell’Europa», spingendo ulteriormente in avanti i temi della laicità e della tolleranza. Magari anche solo per reazione, se si vuole, ma solo in quanto presente, anche in modo pressante ed opprimente, la religione cristiana con le sue diverse confessioni e relative istituzioni ha indubbiamente favorito la genesi di un pensiero laico, liberale, pluralista. In una parola: l’Illuminismo, che del cristianesimo è il fratellastro, molto più di quanto non si pensi. Stessa madre e padri diversi. D’altronde lo stesso può dirsi per la stagione umanistico-rinascimentale. Gli europei sono figli di una dialettica storica. Hegel non a caso è stato il filosofo che ha inaugurato la seconda modernità, quella scaturita dalla Rivoluzione francese di fine Settecento, a cui si affiancò l’industrializzazione dell’economia e il decollo del capitalismo.

Qual è la condizione religiosa dell’Europa contemporanea? È lecito, a Suo avviso, parlare di scristianizzazione del Vecchio Continente?

Per un verso, sì, per un altro, no. Mi spiego meglio. Secondo alcune stime del noto centro statistico statunitense Pew Research si nota un forte declino della fede cristiana in Europa. In appena cinque anni, dal 2010 al 2015, al netto dei morti si calcolano 5,6 milioni di cristiani in meno nel Vecchio Continente, mentre si registrano 2,3 milioni di musulmani in più. Nell’Africa Sub-sahariana, invece, la situazione è ribaltata: in quegli stessi cinque anni si sono contati 64 milioni di cristiani in più, il doppio dei nuovi musulmani. Passando al biennio successivo, 2015-2017, il medesimo istituto ha rilevato peraltro una differenza tra i paesi dell’est e dell’ovest europeo. Alla domanda su chi, cresciuto cristiano, si è poi allontanato dalla fede (o viceversa), emerge come l’adesione alla Chiesa cattolica sia in declino in Europa occidentale (oltre dieci punti in otto paesi, fino a picchi superiori al 20% in Belgio, Norvegia, Olanda, Spagna e Svezia), mentre in quella orientale si notano segnali di crescita, con particolare riferimento a Russia (+8%), Bielorussia (+11%) e Ucraina (+12%). Dunque, complessivamente, diminuiscono i cristiani dichiarati nella parte occidentale dell’Europa, ed anche su questo si sta alimentando una frattura est/ovest – che si affianca e può approfondirsi ancor più di quella nord/sud, che comunque la questione migratoria terrà aperta come ferita lacerante – all’interno degli Stati dell’Ue.
Per un altro verso, la cultura dominante presso l’élite, le classi dirigenti europee occidentali è un progressismo ecumenico, ecologista e multiculturalista che risente di molti elementi cristiani risolutamente secolarizzati. Quel che viene chiamato “europeismo” e che troviamo incarnato nelle varie agende sullo sviluppo sostenibile, il “Green Deal”, l’integrazione ed inclusione dei migranti, ecc. ecc., esprime, almeno nel lessico e nei principi a parole proclamati, una fortissima eco del messaggio evangelico. Solo per fare un esempio tra i molti, si guardi all’udienza pontificia dei partecipanti alla Conferenza Internazionale “Religions and the Sustainable Development Goals (SDGs): Listening to the cry of the earth and of the poor”, promossa dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale e dal pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, tenutasi in Vaticano nel marzo del 2019. Il pontefice ha rimarcato che l’Agenda 2030 e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, approvati da oltre 190 nazioni nel settembre 2015, «sono stati un grande passo avanti per il dialogo globale», nel segno della necessaria «nuova solidarietà universale» auspicata nell’enciclica Laudato si’ (che è del maggio 2015). Diverse tradizioni religiose, «compresa quella cattolica», hanno accolto «gli obiettivi di sviluppo sostenibile perché sono il risultato di processi partecipativi globali che, da un lato, riflettono i valori delle persone e, dall’altro, sono sostenuti da una visione integrale dello sviluppo». In tali termini si è espresso papa Francesco per l’occasione. Qui è più la Chiesa che va verso l’universo valoriale delle istituzioni europee, ma nel segno di un riconoscimento di affinità, che io giudicherei eredità dell’inculturazione cristiana dell’Europa postbellica. Consumati dalla seconda guerra dei trent’anni, che ha incendiato il continente tra 1914 e 1945, sguarniti del lato “pagano” del proprio bagaglio culturale, gli Stati-nazione europei occidentali hanno attinto ad una cultura cristiano-democratica, che peraltro era appannaggio di numerosi autorevoli fondatori del processo di integrazione comunitaria. Le successive classi dirigenti europee ed europeiste l’hanno oltremodo laicizzata, combinandola con il liberalismo dei diritti individuali e il socialismo laburista del welfare.

Come giudica la posizione della Chiesa cattolica, e in particolare di papa Francesco, rispetto ai processi in atto in Europa?

Credo che assecondi la secolarizzazione del cristianesimo ed il suo inserimento nel processo di inculturazione delle nuove generazioni. Erano in tal senso molto eloquenti gli interventi letti dai bambini in occasione della cerimonia della Via Crucis della Pasqua 2021. È stato papa Francesco a volere che le meditazioni fossero affidate ai ragazzi di un gruppo scout di Foligno e della parrocchia dei Santi Martiri dell’Uganda, a Roma. I testi hanno toccato temi che vanno dalla morte del nonno al bullismo, dai litigi in famiglia al Covid. Si è tenuto conto delle segnalazioni di organizzazioni come l’Unicef e Save the Children, secondo cui i più piccoli sono stati e sono le «vittime nascoste» della pandemia. Anche in questa scelta si conferma la quasi perfetta fusione raggiunta tra cultura laica e cultura ecclesiastica, almeno a livello di élites.
Per quanto concerne la Chiesa cattolica, più precisamente, basta leggere un documento come gli “Orientamenti Pastorali sugli Sfollati Climatici”, del 30 marzo 2021, redatto dalla Sezione Migranti e Rifugiati, Settore Ecologia Integrale del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. Quest’ultimo organo è stato istituito da papa Francesco con la Lettera Apostolica del 17 agosto 2016, in forma di Motu Proprio, Humanum Progressionem. Nel Dicastero confluiscono, dal 1° gennaio 2017, le competenze del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, del Pontificio Consiglio Cor Unum, del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, e del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari (per la Pastorale della Salute). Sono costituite presso il Dicastero la Commissione per la Carità, la Commissione per l’Ecologia e la Commissione per gli Operatori Sanitari, le quali operano secondo le loro norme. Una sezione del Dicastero si occupa specificamente di quanto concerne i migranti, i profughi e vittime della tratta, seguendo con la dovuta attenzione le questioni attinenti alle necessità di quanti sono costretti ad abbandonare la propria patria o ne sono privi.
Ho voluto riportare alla lettera denominazioni e funzioni di tutta una serie di strutture che stanno dietro a quel documento per restituire plasticamente la perfetta aderenza, o tendenziale convergenza, di forme e contenuti del magistero e della missione ecclesiastiche alle principali dichiarazioni programmatiche, preoccupazioni ed azioni pratiche messe in campo dalla leadership politica europea occidentale contemporanea. La mia impressione è che in tempi abbastanza brevi la Chiesa cattolica diventerà la più importante agenzia umanitaria dell’Unione europea. In questo il ruolo di papa Francesco è stato quello di uno straordinario acceleratore di processi già in atto da tempo nel mondo cattolico post-conciliare. Ciò che da tempo saliva dalla base e dalla periferia della Chiesa è con il suo pontificato giunto al vertice e al centro.

In un mondo sempre più tecnologico, quale futuro, a Suo avviso, per la fede religiosa?

Intendiamoci anzitutto sulla parola “fede”, su cosa significhi, su cosa comporti. In senso tecnico “fede” è adesione coerente e responsabile ad un progetto, ad un vincolo che va oltre la dimensione dell’interesse personale e immediato. Se guardiamo all’etimologia greca e latina della parola riscopriamo cosa indichi “fede”: quella virtù che consiste nel mantenere la parola data, adempiere rigorosamente agli obblighi assunti, rispettare i patti. Non dimentichiamoci che pacta sunt servanda è un principio fondamentale sia del diritto civile sia del diritto internazionale, necessario alla regolamentazione della pacifica convivenza tra le genti. Mantenere un impegno significa attenersi ad un vincolo liberamente accettato anche quando questo dovesse improvvisamente rivelarsi non più conveniente come prima rispetto ai propri interessi privati. In questo senso essere persona fededegna è – dovrebbe essere – massima morale diffusa, insegnata a partire dalla più tenera età.
Pertanto nella parola “fede” si evoca anche l’idea del vincolo, del legame. La fede religiosa comporta il legarsi a qualcosa di là da venire, una promessa di salvezza a cui appunto ci si affida. Si va oltre l’interesse privato, ma anche al di là del presente e persino del mondo terreno, dell’esperienza corporea dei sensi. Significa, insomma, concepire se stessi come creature. Pietro Piovani, filosofo morale e del diritto, parlava della persona come di un «volente non volutosi», sottolineando una datità originaria della condizione umana. C’è all’origine, intesa come matrice, una indisponibilità di fondo che dovremmo saper accogliere come grazia, un dono, per l’appunto. Ebbene, la tecnologia moderna e contemporanea è figlia di una visione dell’uomo e della natura secondo cui fondamentalmente non c’è vincolo che tenga, i limiti sono fatti per essere spostati sempre più avanti, fino alla realizzazione in terra della piena autodeterminazione dell’uomo, unico sovrano.
Interessante, eloquente e perfettamente coerente al dominio tecnologico la definizione che al punto d viene data dall’articolo 1 del ddl in discussione ora al Senato, noto come “proposta di legge Zan”, là dove si afferma: «per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione». Non esiste più alcuna oggettività, ma solo una moltitudine di soggettività auto-percepite e mutanti, così come son mutevoli lo stato d’animo e il desiderio umani. È il trionfo della volontà di potenza veicolata sotto le vesti del diritto alla felicità. Difficile resistergli, anche perché bisognerebbe non avere paura della morte, non troppo almeno, né del suo preavviso, ossia l’invecchiamento, il fisiologico allontanamento da quella giovinezza elevata al rango di età da preservare e protrarre fino all’estremo, fino alla sua massima estensione possibile. Chi è vecchio è già di per sé un perdente, uno sconfitto, uno scarto più o meno ingombrante. La chirurgia estetica, altra manifestazione dello sviluppo tecnologico, è sempre più richiesta a tal fine, per contrastare il declino, l’inarrestabile senescenza, per illudere di aver trovato l’elisir dell’eterna giovinezza. Attraverso ritocchi del corpo, protesi, ecc., si tenta di esorcizzare le avvisaglie della morte.
D’altronde è anche in nome della riduzione della sofferenza, della rimozione del dolore, che le civiltà sorgono. Non solo, ma anche. Il problema è che lo sviluppo tecnologico è giunto ad un livello di potenza, di capacità e fattibilità trasformativa, tali per cui la tentazione di immortalità, o rimozione indefinita della fine, ha preso il sopravvento. Tutto comprensibile. Umano, fin troppo umano. Il fatto è che, spezzatosi il punto di equilibrio, non compensiamo più la potenzialità tecnologica con tutte quelle narrazioni che, sin da piccoli, educavano gli esseri umani alla meditatio mortis, come i miti, la religione e la filosofia, platonico esercizio alla morte, depositi di saggezza che fornivano insegnamenti tramite i quali imparare a morire, con più o meno stoica rassegnazione. Ma perché farlo? Perché intraprendere la dura via della disciplina religiosa o filosofica, quando s’intravede la possibilità della somministrazione, magari anche sovvenzionata dallo Stato, di una pillola che, se non immortala per sempre, quanto meno procrastina il dolore e la morte? Arduo confutare la seduzione della soluzione tecnologica.
Siamo creature fragili perché sottoposte alla natura, che è macina di Dio, per così dire, ossia forza che ci sottomette al ciclo vita-crescita-invecchiamento-morte. Da questo ciclo naturale nelle nostre società occidentali si tende sempre più ad espungere la maturità e la senescenza. Con la cultura cerchiamo di soggiogare la natura, modificarla fino a trasformarla in ambiente a misura delle nostre esigenze di felicità, benessere e gusto estetico, sovente condizionato dalle mode. Della natura amiamo la campagna e la collina levigate dal millenario lavoro dell’uomo, non certo il terremoto o il virus pandemico. Infatti la filosofia occidentale parla di ambientalismo, non certo di amore per la natura selvaggia, ostile e avversa alla presenza umana, specie quando questa tende a farsi ingombrante.
In un contesto del genere mi si chiede quale futuro sia riservato alla fede religiosa. Nell’età del dominio tecnologico tutto ciò che si pone come vincolo, qualcuno o qualcosa che pone obblighi, è visto come il male assoluto, vilipeso e abbattuto. Restando alla realtà sociale e culturale che più conosco, quella europea ed occidentale, la nostra è per eccellenza l’età dell’incessante superamento, dei record, delle soluzioni intese come scioglimento e dissolvenza, l’èra degli sconfinamenti, degli scatenamenti, dell’arbitrio libero anche dall’uso della ragione, dal momento che ognuno ha e si fa le sue ragioni. Questa è la tendenza che spinge, traina e tracima nel sottosuolo della nostra civiltà, che per questo farà sempre più fatica ad elogiare qualsivoglia forma di fede. Tutto si muove e chi si ferma, magari a pregare, è perduto. È un attardato, un arretrato. Eppure una ricerca religiosa continuerà ad esistere in tutti coloro i quali vorranno o non potranno fare a meno di attardarsi sulla via del tramonto, far from the madding crowd.

Danilo Breschi è Professore associato di Storia delle Dottrine Politiche presso l’Università degli studi internazionali di Roma – UNINT e Direttore scientifico del semestrale «Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee» (IPS Edizioni), in edizione anche digitale (www.ilpensierostorico.com).

[intervista originariamente apparsa su “Letture.org“]