Archivi tag: Anna Maria Battista

Tocqueville e il doppio legame della democrazia

Recensione a: Alexis de Tocqueville, Libertà e cristianesimo. Interventi sul problema religioso e la libertà d’insegnamento , con un saggio di Anna Maria Battista, presentazione di Gaetano Quagliariello, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008, pp. 183.

Questo è un libro che otto anni fa balzò agli onori della cronaca politica per un’intervista rilasciata dal senatore Gaetano Quagliariello, allora vice-capogruppo del Pdl al Senato. Al “Corriere della Sera” del 3 aprile 2009 dichiarò di aver regalato questa raccolta di scritti di Alexis de Tocqueville a Gianfranco Fini, affinché quel che all’epoca era il presidente della Camera si chiarisse «un piccolo problema teorico» convincendosi che liberalismo e democrazia «sono nati come sviluppo del sentimento religioso» e che affermare ciò «non vuol dire affatto trasformare la democrazia in teocrazia».

Che il volume uscisse con un intento politico-culturale risulta evidente dalla presentazione con cui lo stesso Quagliariello introduceva questi scritti tocquevilliani originariamente apparsi nel 1976 come appendice ad un lungo saggio di Anna Maria Battista, studiosa prematuramente scomparsa nel 1988. Eppure, a leggere il volume e soprattutto il saggio di Battista, questo lavoro offre qualcosa di più e di diverso rispetto alle stesse intenzioni della ripubblicazione. Intendo dire che negli interventi di Tocqueville, tutti datati fra il 1844 e il 1845, e nell’analisi minuziosa svolta da Battista emerge una problematica assai complessa circa il possibile rapporto fra liberalismo e cristianesimo. Ma, soprattutto e più esplicitamente, intendo dire che il liberalismo tocquevilliano potrebbe apparire così peculiare e singolare da rendere arduo il farne un punto di riferimento attuale o comunque esportabile fuori dal contesto storico e culturale nel quale matura. Per come emerge dal saggio di Battista, la posizione del pensatore normanno è una originalissima, ma anche personalissima, combinazione di tradizionalismo morale e progressismo politico. Una contraddizione in termini che sarebbe ingenuo e non corretto liquidare come solo apparente. Ma ricostruiamo il contesto nel quale si esprime la posizione tocquevilliana.

Siamo nella Francia della Monarchia di Luglio, in una fase, tra il 1840 e il 1844, nella quale si accende un violento dibattito sulla libertà d’insegnamento che vede lo schieramento liberale laico opporsi a gran parte del clero nazionale e del laicato cattolico. La Charte costituzionale di Luigi Filippo d’Orléans (parziale aggiornamento/ampliamento di quella concessa da Luigi XVIII nel 1814) prevedeva la libertà d’insegnamento. Era un principio sancito costituzionalmente per la prima volta ma ancora inapplicato agli inizi degli anni ’40. Su questa inadempienza cominciarono ad insistere i cattolici, pronti a rovesciare il principio della libertà d’insegnamento contro gli stessi liberali che, al governo, mantenevano il sistema centralizzato dell’insegnamento secondario introdotto da Napoleone. La polemica contro il monopolio statale dell’insegnamento secondario e universitario veniva svolta dai cattolici come Montalembert e Lacordaire in nome del diritto di ciascun cittadino di scegliere liberamente il metodo d’insegnamento per i propri figli. La strumentalità di tale richiamo ai principi liberali è abbastanza evidente nei personaggi ora menzionati, ma risulta meno chiara in un personaggio come Tocqueville, pensatore e politico di fede liberale e che più volte si era dichiarato privatamente e pubblicamente un “non credente”, anche se non un anti-clericale né tanto meno un anti-cristiano. È soprattutto fra 1843 e 1844 che si sviluppa la battaglia pubblicistica tra laici e cattolici. Nel corso del 1844 e fino al gennaio dell’anno successivo Tocqueville interviene pubblicamente con alcune prese di posizione sia in Parlamento sia in una serie di articoli pubblicati su “Le Commerce”.

Tocqueville si mostra estraneo ad un’idea di fondo condivisa dai suoi colleghi di fede politica: quella secondo cui il liberalismo non è soltanto una concezione politica, ma anche e soprattutto una nuova filosofia dell’uomo, una nuova – e superiore – etica civile. La matrice della nuova etica è indubbiamente da rinvenirsi nella Rivoluzione francese, fatte salve le distinzioni tra le sue premesse e gli esordi da una parte, le sue conseguenze e le degenerazioni dall’altra. Battista parla di una «bipolarità singolare» presente nel pensiero di Tocqueville tra antirazionalismo e razionalismo, «tra il “non laicismo” della sua prospettiva in materia teoretico-religiosa e il “laicismo” totale, radicale, irriducibile del suo credo politico, se per “laicismo” si intende il rifiuto di ogni autorità vincolante la libera ricerca della ragione». Ora è indubbio che il liberalismo può essere correttamente ed efficacemente definito una sorta di “arte della separazione”, ma qui si tenta di «coordinare», come precisa Battista, «i valori metafisico-morali del cristianesimo con i valori nuovi della rivoluzione politica in atto» dal 1789, se non da qualche decennio prima.

Il motivo di fondo che anima la posizione di Tocqueville nasce da una preoccupazione che si riassume nel seguente interrogativo: «Come la società potrebbe non correre il rischio di perire, se, mentre il legame politico si allenta, il legame morale non si restringe?». Questa domanda sorge tra le pagine della Democrazia in America ed è appieno il frutto di quel viaggio compiuto fra 1831 e 1832 negli Stati Uniti. Quell’esperienza non contribuisce solo a sviluppare la sensibilità storica del pensatore normanno, ma ne stimola anche una convinzione generale che intende applicare nei contesti più diversi. Questa è infatti la tesi di Battista: che Tocqueville maturi da quella fondamentale esperienza d’oltreoceano una spiccata sensibilità nei confronti del tema religioso e ritenga che l’unica effettiva ed efficace morale sia quella religiosa, e cristiana in particolare. Effettiva ed efficace in termini di coesione sociale, dal momento che, tra i fattori determinanti la stabilità ed il successo delle istituzioni politiche democratiche, i “costumi” svolgono un ruolo prioritario. Secondo il pensatore normanno, scrive Battista, la libertà politica può instaurarsi solo là «dove esiste nella società civile un alto grado di moralità nei costumi». Il punto è noto a tutti i cultori di studi tocquevilliani, ma questa convinzione si sviluppa fino alla polemica del 1843-44 sul monopolio statale dell’insegnamento secondario ed universitario.

La questione centrale è se Tocqueville proponga una conciliazione o piuttosto un affiancamento e una giustapposizione. L’analisi di Battista induce a pensare che l’esito non possa che essere quest’ultimo e proprio lo scontro tra laici e cattolici sulla scuola rivela quanto fragile ed artificiosa sia in fondo l’ipotesi tocquevilliana. Resta però, a mio avviso, intatta la sfida teorica e pratica posta da Tocqueville, probabilmente ben oltre la sua stessa volontà se è vero che si tratta piuttosto di una posizione culturale e politica frutto di una personalissima biografia intellettuale. Un percorso, il suo, che può essere anche di singoli individui contemporanei, ma che nel momento in cui lo si propone come formula politica scade abbastanza facilmente in un’ingegneria sociale tanto seducente quanto inconcludente. La sfida che però resta in piedi consiste, a mio avviso, in questo: combinare e tradurre in un assetto politico-istituzionale una sostanziale e vitale conservazione dei valori cristiani in ambito morale e una ampia e laica libertà individuale in ambito politico. Ma è mai possibile scindere in modo così chirurgico sfera pubblica e sfera privata, politica e morale?

Per come la ricostruisce Battista, la posizione di Tocqueville pare non solo singolare ma anche improponibile, se non addirittura astratta ed ideologica, molto più di quella sostenuta dai liberali suoi contemporanei. Ed è qui che ci pare poco congruente la scelta di riprodurre, assieme agli articoli tocquevilliani, il lungo saggio della studiosa che pur ha avuto il merito di mettere in luce questo singolare aspetto del pensiero di Tocqueville. Se l’intento era mostrare la possibile, se non necessaria, connessione fra liberalismo e cristianesimo, certo non è a Tocqueville che pare opportuno rivolgersi per trovare una soluzione pratica. Il pensatore normanno pone, con forza non comune e lungimiranza non voluta, una questione oggi più urgente di ieri, ossia la ricerca dei contrappesi necessari ad una libertà democratica dispiegatasi ai limiti dell’anarchia degli istinti e dell’individualismo egoistico e disgregatore.

Come per ogni pensatore dell’Ottocento, specie se francese, il problema è sempre lo stesso: come gestire l’eredità della Rivoluzione del 1789, cosa accettarne e cosa rifiutarne. Scriveva Tocqueville nel 1840: «le rivoluzioni rovesciano sempre le vecchie convinzioni, indeboliscono l’autorità e oscurano le idee comuni» con l’effetto, pressoché inevitabile, di «abbandonare gli uomini a se stessi e di aprire davanti allo spirito di ognuno di essi uno spazio vuoto e illimitato». Ma che il legame sociale si possa mantenere sospendendo, come d’incanto, nella sfera morale quel dubbio che si può e si deve esercitare in campo politico, come se la legislazione non si riverberasse sui costumi, pare artificio povero di quel retroterra filosofico che ne garantisca possibilità di consenso e radicamento.

Suggerire, come peraltro risulta da alcuni articoli di Tocqueville, che la teoria e la pratica liberale non dimentichino mai da dove essi attingono parte dei loro principi è invece un ottimo punto di partenza per un pensiero liberale che voglia incidere sulla politica contemporanea e che sappia rispondere alle sfide poste dai nuovi integralismi antioccidentali. Che senza rispetto di alcune tradizioni il liberalismo scivoli nel nichilismo è altresì una consapevolezza che occorre oramai acquisire; che basti dire che su certe questioni non si discute e ci si affida al dogma è invece una pia illusione. Si consiglia di cominciare la lettura dal discorso che Tocqueville tenne in Parlamento il 17 gennaio 1844. Lì si troverà che la fede religiosa è apprezzata dal pensatore normanno in quanto «fonte di vita sociale» e non mero instrumentum regni secondo l’uso che certi stessi liberali intendevano farne. Lì sì trova affermato che la libertà religiosa è «la più grande delle libertà conquistate nel 1789». Lì, infine, si trova evidenziata una distinzione ancor oggi feconda fra istruzione ed educazione. Quest’ultima va intesa come «l’istruzione del cuore e dei costumi», e qui subito appare assai meno contorta e fumosa la posizione tocquevilliana. Già si intuisce cosa Tocqueville intraveda nella presenza di una religiosità diffusa a livello popolare.

L’intera battaglia da lui condotta dalle colonne del “Commerce” rende infine piuttosto chiara la natura del suo liberalismo, assai più pluralistico di quello di molti altri liberali suoi contemporanei. Per come viene presentata da Battista, l’ipotesi tocquevilliana è inevitabilmente destinata allo scacco. Ma la sensazione è che, ancora una volta, l’interprete dica qualcosa di inferiore e di diverso rispetto all’interpretato, il quale, se è un classico, va letto senza commenti. Solitamente l’autore classico è assai più semplice da capire se letto senza filtri, molto più duttile per essere “attualizzato” e quindi anche per venire, più o meno felicemente, “strumentalizzato”.