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La sfida dell’integrazione

23 aprile 2007. Dieci anni fa. La Fondazione Giovanni Agnelli presentava risultati di una ricerca condotta su oltre 900 giovani immigrati o d’origine straniera fra i 12 e i 21 anni a Torino (sui circa 7.600 presenti nell’area in quella fascia d’età, uno su otto). Come veniva detto nella conferenza stampa, “un campione ampio, ponderato per età, nazionalità e genere, che ci parla di Torino, ma che rimanda a situazioni diffuse in ogni città italiana”. Obiettivo della ricerca era comprendere condizioni di vita presente e aspettative per il futuro delle cosiddette “seconde generazioni”, che, in senso stretto, sono i ragazzi nati in Italia da genitori stranieri, e in senso lato sono i ragazzi e le ragazze immigrate in Italia in giovane età.

Un primo dato che emergeva riguardava l’età dei giovani all’arrivo in Italia. Era ovviamente determinante “nell’orientare, in linea di tendenza, le traiettorie e i percorsi di inserimento nel contesto economico e socio-culturale locale. In molti casi – si sosteneva nel rapporto – più del paese d’origine influisce sui comportamenti e gli atteggiamenti dei giovani il fatto di essere nati e cresciuti in Italia – come avviene per le seconde generazioni in senso proprio –, oppure di esservi giunti in età prescolare o comunque in età da potere essere inseriti nella scuola dell’obbligo, o, infine, di appartenere a coloro che si sono ricongiunti alle famiglie solo in età adolescenziale, con maggiori difficoltà d’integrazione scolastica e di apprendimento della lingua italiana”.

Altro dato estremamente interessante che emergeva da quella ricerca era relativo alla percezione del proprio radicamento in Italia. Alla domanda “Ti senti italiano?” rispondeva positivamente quasi il 60% dei ragazzi e ragazze di seconda generazione (nati perciò in Italia) e oltre il 50% di quelli giunti nei primi cinque anni di vita, ma solamente il 12% degli immigrati in età adolescenziale (arrivati in Italia fra i 13 e i 17 anni). Si precisava inoltre che “l’età d’arrivo in Italia conta molto anche nella capacità di stringere rapporti con i coetanei italiani, con i quali il 62% dei giovani di seconda generazione afferma di fare facilmente amicizia, ciò che quasi il 70% degli immigrati giunti in Italia da adolescenti ritiene invece difficile”. Da osservare che, in questo caso, erano i giovani cinesi a dichiarare maggiori difficoltà, rispetto alle altre nazionalità, nel fare amicizia con gli italiani.
La ricerca metteva in luce anche i potenziali conflitti tra i figli degli immigrati e i loro genitori. I primi venivano definiti “portatori di una ‘cultura dell’emigrazione’, fatta di permanenze e discontinuità, […] sensibili allo stile di vita dei loro coetanei italiani. Ciò tende a soppiantare radicalmente e a contrastare l’idea che i genitori, legati alla proprio storia personale imbevuta di cultura tradizionale, hanno di che cosa sia giusto e sano per i loro figli. Di qui il conflitto, più o meno latente”.

Ultimo dato da sottolineare era il peso della differenze di genere, nel senso che in molti casi erano le donne a “rappresentare punti di vista più moderni, sullo studio, il lavoro e la famiglia. Per quasi il 70% dei ragazzi (più degli altri, cinesi e romeni) è la famiglia il principale ambito di realizzazione della donna, mentre le ragazze si dividono a metà fra famiglia e lavoro, privilegiando inoltre, più dei maschi, il proseguimento degli studi rispetto a un precoce ingresso nel mercato del lavoro”.

Così nel 2007. Veniamo ad oggi. Dieci anni dopo. Prendo i dati forniti da un’indagine condotta dall’Istat nelle scuole tra il 2015 e il 2016. Si certifica che attualmente in Italia i ragazzi figli di immigrati sono più di un milione, e tre su quattro sono nati qui. A scuola, gli alunni stranieri sono oltre 814mila, per la metà ragazze. Alla domanda “ti senti italiano?” ha risposto positivamente il 38% degli intervistati, il 33% dice di no (e poco più del 29% non è in grado di rispondere). Gli alunni originari dell’Asia e dell’America Latina sono quelli che più frequentemente si dicono stranieri (il 42,1% dei cinesi). All’opposto troviamo i romeni, che si sentono italiani per il 45,8%. I ricercatori Istat commentano: “Gli studi attribuiscono ai ragazzi con background migratorio una condizione di sospensione tra la cultura di origine e quella del Paese di accoglienza”. Più “integrati” gli studenti stranieri, ma nati in Italia: il 47,5% si sente italiano e il 23,7% si considera straniero.

Alla luce di questi dati Mara Tognatti, docente di Politiche migratorie alla Bicocca di Milano, sostiene che “il problema è che alcune famiglie, come quelle pachistane o bengalesi, cristallizzano modelli e valori del loro Paese d’origine, con casi estremi di ragazze che vengono costrette a lasciare scuola, attività sportive o ludiche, molto prima dei loro fratelli maschi. In generale, però, nei conflitti con le famiglie intervengono più fattori, come la criticità tipica dell’età adolescenziale e la presenza di genitori isolati, non preparati al ruolo, senza reti di sostegno”.

Da Torino a Roma, sempre 2017. Osservazione empirica. Di recente ho avuto occasione di tenere alcune lezioni a studenti dell’ultimo triennio di istituti tecnico-commerciali della Capitale, nell’ambito dei progetti dell’alternanza scuola-lavoro. Ho avuto di fronte, pertanto, giovani tra i 15 e i 19 anni d’età residenti a Roma. Salvo rari casi, da contarsi sulle dita di una mano, la conoscenza di quali fossero significato e missione della politica, ruolo e funzioni di costituzione, parlamento, governo, ecc. era pari a zero. Non pochi di loro avevano già acquisito il diritto di voto, da qualche mese se non da più di un anno. Il 90% di loro non aveva esercitato finora tale diritto, nonostante nel 2016 non fossero mancate occasioni di voto (due referendum e le elezioni comunali). Nel far loro notare che tra poco avrebbero potuto/dovuto partecipare ad un importante appuntamento elettorale, la domanda quasi corale è stata: “ma su cosa voteremo?”.

Mettiamo assieme i dati forniti dalla Fondazione Agnelli e dall’Istat con quanto ricavato dalla mia minuscola constatazione empirica, comunque confermata dall’esperienza di decine di colleghi e amici insegnanti presso scuole di ogni ordine e grado (le cose non migliorano granché con licei classici e scientifici). Ne risulta una diffusa ignoranza rispetto all’abc del diritto costituzionale e dell’educazione civica per rendere informata e consapevole una cittadinanza che, a questo punto, dobbiamo considerare soltanto nominale. Un’intestazione meramente formale. Non ci si può poi meravigliare del crescente astensionismo elettorale, ed è riduttivo addebitarlo al solo declino della forma-partito e al dilagare del malcostume di tanta parte della classe politica. Il senso di appartenenza ad un Paese non può limitarsi alla conoscenza del solo patrimonio artistico. E anche di ciò c’è alquanto carenza.

È solo con solide cognizioni storiche, giuridiche e politologiche che si cementa un’identità di cittadini. Troppo a lungo si è confinato tale bagaglio di conoscenze e competenze alle facoltà universitarie di scienze politiche. Niente di più basico, obbligatorio per scuole elementari, medie e superiori di ogni ordine e grado, che l’insegnamento di elementi di diritto, storia (nazionale e internazionale) e politica.

Combinate il decrescente senso di appartenenza italiana delle seconde generazioni di immigrati con una più generalizzata ignoranza giovanile sui fondamenti politico-istituzionali della propria cittadinanza (equamente distribuita tra figli di italiani o di stranieri): ne ricaverete l’indizio di un’allarmante perdita d’identità nazionale, cioè condivisa, soprattutto su principi e valori compatibili con il perdurare di una liberaldemocrazia in effettiva salute. Come pretendere dai “nuovi italiani” l’adesione ad un sistema politico-culturale che non sappiamo neanche noi definire? È sui banchi di scuola che si gioca gran parte della partita dell’integrazione.

Presidenza del Consiglio e Ministero dell’Istruzione dovrebbero impegnarsi su questo fronte per i prossimi cinque, dieci, venti anni. Se non colmeremo il deficit di cultura civica e politica delle nuove generazioni (per tacere delle vecchie), paragonabile per vastità e gravità al debito pubblico, dello Stato italiano non resterà che un guscio vuoto. Dentro non avremo più un qualcosa definibile come società civile. Saremo entrati nell’era del nuovo feudalesimo. Se perdiamo la sfida dell’integrazione, prepariamoci alla vittoria della disgregazione.