Ancora sull’antipolitica: la democrazia una e bina

Lunedì scorso, a margine del vertice del G7 a L’Aja, Matteo Renzi ha così commentato l’esito del voto al primo turno delle elezioni amministrative in Francia, che hanno visto un successo del Front National di Marine Le Pen: “L’Ue deve prendere atto di un diffuso senso di contestazione e antipolitica” e quindi “mettere al centro la crescita e la lotta alla disoccupazione”. Quel che è accaduto in Francia potrebbe accadere molto probabilmente, o più semplicemente: accadrà senz’altro, in molti altri Paesi dell’UE a fine maggio, quando si terranno le elezioni per il Parlamento europeo. L’Italia è la prima indiziata tra gli Stati che potrebbero registrare un forte malcontento antieuropeista, anche sotto forma di un ampio e diffuso astensionismo. Ma non è solo questione di crescita e disoccupazione, anche se le democrazie europee soprattutto su questo si sono consolidate dal secondo dopoguerra ad oggi.

Quanto accaduto in Francia domenica scorsa ci segnala che la società transalpina non si sente rappresentata. È un problema che tocca prima di tutto le fasce più deboli e impoverite del paese, ma non si limita ormai solo ad esse. Di qui la rilevanza politica che ha assunto il fenomeno, tra astensionismo e voto a forze che un tempo sarebbero state dette radicali se non antisistema. C’è, in Francia, una riduzione alla “invisibilità”, ci dice Pierre Rosanvallon, illustre storico e sociologo del Collège de France, autore di un agile volumetto appena uscito in Francia con il titolo Le Parlement des invisibles (Éditions du Seuil, 2014). L’invisibilità di cui parla è l’esatto opposto dell’essere rappresentati, ossia, letteralmente, essere resi presenti agli altri. La propria vita quotidiana che conta, in una qualche misura, piccola magari, ma che conta e viene raccontata, questo si chiede. Proprio “raconter la vie” è il progetto che Rosanvallon intende lanciare con questo suo nuovo scritto, che del progetto vuole essere una sorta di manifesto inaugurale e programmatico.

L’aspirazione ad una società più giusta è inseparabile da questa attesa-pretesa di riconoscimento, anzitutto individuale. Oggigiorno è così che si declina una democrazia che voglia tornare ad essere vitale e attiva, produttiva di nuovi miglioramenti delle condizioni sociali ed economiche ma anche di una titolarità di diritti che non sia solo nominale, di facciata. “L’invisibilità ha un costo democratico” e lascia spazio allo svilupparsi, nefasto, di un linguaggio politico saturo di astrazioni, che non ha più presa sulla realtà e si rafforza solo nell’ideologia, dice Rosanvallon, intendendo con ciò “la costituzione di mondi magici e artefatti”. Si è relegati all’invisibilità? Condannati ad essa? Ebbene, non potrà che crescere in me, in noi, in qualunque cittadino, il disincanto nei confronti della politica. Il sospetto, la diffidenza, l’allontanamento e infine il disprezzo per la politica. Dunque, l’antipolitica. E, annesso e connesso ad essa, il populismo. Ebbene sì, proprio questo ci fa capire Rosanvallon: la stretta associazione tra antipolitica e populismo. Le forze populiste si nutrono di questo sentimento antipolitico, legittimo, giustificato e comprensibile, perlopiù figlio di questa condanna all’invisibilità. Le forze populiste si presentano come le autentiche portavoce dei senza-voce e i più genuini difensori della dignità sociale e politica violata. La rivendicazione di cui si fanno latori è sacrosanta. Il problema, ci spiega Rosanvallon, è che “il” popolo che quelle forze populiste invocano è solo un “Ercole verbale”, che sconta il fatto di non essere altro che “l’espressione di impazienze e di rancori accumulati, la designazione imperiosa di una giusta frustrazione che non fa che moltiplicarla senza darle (e darne) una spiegazione” coerente e produttiva. Invocando “il popolo-uno”, indistinto, quelle forze mirano a contestare la cattiva rappresentanza, la “mala-rappresentanza”, ma senza formulare le condizioni positive di un riconoscimento e di una espressione dell’effettivo mondo sociale che ne siano il più possibile lo specchio fedele, ossia aderenti ad una pluralità di voci. Perché questo è il popolo ad oltre due secoli dalla Rivoluzione francese e dalla proclamazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.

Il populismo si accontenta di contrapporre, in una esternazione scomposta e (auto)distruttiva di rabbia sorda e impotente, la massa “obliata” all’arroganza o all’indifferenza che si suppone sia appannaggio esclusiva delle classi governanti e dirigenti. Altro però si deve fare se si ha davvero a cuore la democrazia, la quale indubbiamente sta soffrendo, in Francia come in Italia, in Grecia come in tante altre parti d’Europa, una crisi in termini di affettività e di convinta adesione ai suoi istituti e alle sue regole. Anzitutto, da un punto di vista teorico che poi diventa immediatamente pratico-politico, occorre ridare consistenza alla parola “popolo”, riscoprendola e restituendola alla sua vitalità, ora perduta nelle derive oligarchiche dei sistemi rappresentativi ora ingabbiata dalle retoriche populiste che non fanno che rispecchiare il disagio senza capirne veramente le radici e le motivazioni. Queste ultime nascono in seno ad un popolo che non esiste se non al plurale, come ci ricorda Rosanvallon. Il popolo non può essere onestamente ed efficacemente còlto e afferrato che nella sua diversità e complessità. Occorre dunque tornare alla molteplicità delle esistenze e delle esperienze, in modo che del popolo si “declini la verità pratica e le contraddizioni”. Bella ed eloquente la definizione che ci offre Rosanvallon: “Il popolo non vive se non come un’immagine animata che nasce dalla successione di molteplici fotografie istantanee”. Fissarlo in un blocco di marmo significa snaturarlo, mutilarlo. Ed è proprio questa l’operazione ideologica sottostante alla retorica populista. Questa uccide la democrazia con una idea fraintesa, malintesa, di democrazia. Il populismo dimentica anche che il popolo “è il nome dato ad una forma di vita in comune da costruire, che non è ancora data”.

Nel momento in cui i partiti e i sindacati tradizionali non sono più i luoghi privilegiati di incontro e di espressione, occorre sperimentare un nuovo tipo di “sociabilità”. Questo è il progetto che anima Rosanvallon e il sito www.raconterlavie.fr. Uno spazio di discussione da cui partire per una lenta, paziente ma espansiva opera di raccolta di racconti di vita, che siano occasione di incontri e ri-conoscimenti reciproci, in modo da “disegnare uno spazio sociale di inedita tipologia”. Invitare a raccontarsi dovrebbe avere una “funzione democratica”, di questo si dice convinto l’intellettuale francese. Di fatto, si offre quantomeno uno spazio di rappresentanza, che è tutta da ricostruire, consapevoli che la democrazia sconta da sempre, sin dalla sua origine moderna, appunto risalente al 1789 e dintorni, una contraddizione o paradosso di fondo. Due verità in una: da un lato, la democrazia intende mettere il popolo, come sovrano collettivo, al posto di comando; dall’altro lato, essa sacralizza l’individuo, poiché è a partire dalla valorizzazione della sua autonomia e dei suoi diritti che si costituisce l’ideale moderno di uguaglianza. Sin dall’origine, pertanto, esiste nel cuore della teoria e della pratica democratica la contraddizione, o compresenza difficile, tra il principio politico e il principio sociologico. La democrazia ci ripropone un problema analogo a quello teologico della Trinità. La democrazia una e bina. Torneremo sulla questione.

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2 pensieri su “Ancora sull’antipolitica: la democrazia una e bina

  1. é molto interessante quanto scrivi e l’opinione di Rosanvallon; ma quando il disincanto del mondo dovuto, à mon avis, alla tecnica, produce un cambiamento antropologico come oggi lo vediamo (specie gli anziani come me che l’hanno visto in diretta), non sono per niente in grado di proporre anche la pur minima soluzione. Ma anch’io ho una speranza: quella di avere torto.
    cari saluti giancarlo

    1. Caro Giancarlo,
      cruciale è il problema che tu poni, quello del mutamento antropologico, del modo di vedere, pensare e giudicare il mondo da parte di uomini e donne. L’impatto della tecnica, ossia delle possibilità applicative delle continue scoperte scientifiche, è di portata forse incommensurabile, almeno al momento. E va ben oltre i confini della civiltà occidentale. Questo è ciò che chiamiamo globalizzazione. Sull’idea di “natura umana” giocheremo la partita ideologica del futuro, o di un tempo già presente? Può darsi.
      Un caro saluto,
      DB

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