Resistenza e isolamento

di Paolo Valesio

E va bene, forse l’idea di enunciare un proponimento per l’anno nuovo non è particolarmente originale. Ma a volte vale la pena di ascoltarlo, questo desiderio di mettere un po’ d’ordine nei propri pensieri e attività — tanto più quando esso si rivela come desiderio più vasto: dare al proprio lavoro un senso generale. Senso della vita? Causa? Missione? Parole troppo grandi; forse è meglio parlare più semplicemente di un compito. Per dare un’idea del compito che vorrei diventasse un filo rosso lungo queste pagine, parto da un racconto che mi ha fatto riflettere. Si tratta del testo iniziale ed eponimo della raccolta di racconti Beethoven Was One-Sixteenth Black di Nadine Gordimer, premio Nobel 1991 (Penguin Books, 2008), la quale com’è noto vive in, e scrive su, il Sud Africa. Non è il libro più forte della Gordimer; ma a me interessa il seguente paragrafo all’inizio del racconto, sul protagonista — un professore di biologia che è stato un attivista anti-apartheid e che adesso viene essenzialmente ignorato dalla nuova generazione di studenti radicali, i quali sono impegnati “in proteste contro il mondo universitario in quanto rappresentato dal solito gruppo di bianchi anziani che bloccano la trasformazione dell’università, da club di intellettuali bianchi verso un’istituzione non razziale con maggioranza nera (gergo della correttezza politica)” .
Ci si potrebbe chiedere a chi appartiene la frase tra parentesi, con il suo accenno chiaramente ironico alla correttezza politica : è il monologo interiore del protagonista? E’ un intervento dell’autrice? E’ un po’ di tutte e due le cose? Ma ciò che più preme adesso è qualcosa che va al di là delle sottigliezze narratologiche. Quella frase tra parentesi , “(politically-correct-speak)”, è più icastica e suggestiva in inglese che nella traduzione italiana, poiché essa evoca una delle formule definitive della letteratura etico-politica moderna: il “Newspeak”, cioè il linguaggio istituzionalmente oppressivo di quella comunità distopica creata da George Orwell nel famoso romanzo Nineteen Eighty-Four (pubblicato nel 1949, un anno primo della morte dell’autore) — il romanzo che descrive il paese dell’“Ingsoc” (vale a dire, traducendo dal newspeak, “English Socialism”), e che contiene alcuni dei più famosi contributi della lingua inglese alla terminologia totalitaria, come “Doublethink” e “Thoughtcrime”.
Ma il riferimento al romanzo di Orwell è ormai divenuto un cliché giornalistico — peggio ancora: è diventato un classico esempio di doublethink o “doppiopensiero’, in quanto viene spesso trasformato (con la logica diabolicamente paradossale del linguaggio della politica contemporanea) in qualcosa di simile a un’ennesima giustificazione della correttezza politica. E’ da qui che vorrei partire, lasciando da parte questi illustri autori, per dipanare il mio modesto filo rosso (senza nessuna allusione politica).
“Correttezza politica” è un eufemismo ormai quasi impronunciabile. Adoperando questa formula sorniona, infatti, finiamo col dare un colpo al cerchio e uno alla botte; è come se dicessimo, ammiccando: ‘Beh, questa preoccupazione politica ci fa sorridere’, e poi subito indossassimo l’uniforme della serietà: ‘D’altra parte, è una questione di correttezza — dunque ha un valore imprescindibile’. E invece no: bisogna proprio prescindere. Questa formuletta della correttezza, infatti, maschera la strategia di sottile controllo ideologico che si è sviluppata dopo il crollo dei grandi regimi totalitari. Il nazifascismo e il comunismo opprimevano popoli interi, e parte della loro strategia era una censura abbastanza rozza che si estendeva a tutti gli strati della società. La vittoria della democrazia ha portato con sé la fine dell’oppressione e della censura di massa (almeno in quello spazio piuttosto piccolo che è l’“Occidente”: nel resto del mondo, sono molti gli stati che continuano a opprimere e censurare le proprie popolazioni come componente indiscussa dell’esercizio del loro potere).
Ma credere nella democrazia (termine notoriamente vago e informe) non vuol dire essere ingenui. In nessun periodo storico e in nessun luogo — compreso il nostro “oggi” e i nostri vari “dove” — è mai esistita una completa libertà d’espressione; e soprattutto, sono poche le persone che veramente la desiderano. Queste poche persone si guadagnano al massimo momenti e spiragli di libertà espressiva: sempre con fatica, a volte con rischio (non deve stupire dunque che i ricercatori di libertà espressiva siano pochi). E così si torna al sottile controllo ideologico di cui si diceva. Le democrazie debbono evitare (pena la loro scomparsa) il totalitarismo; al tempo stesso debbono sviluppare (pena la loro scomparsa) meccanismi di controllo dell’opinione e dell’espressione pubbliche che siano più raffinati, ma che restino pur sempre meccanismi di controllo. (Dentro la parola democrazia si annida com’è noto la parola krátos ‘potere’.)
Tutte le vittorie prima o poi si pagano; e una delle conseguenze meno trionfali del trionfo della democrazia è stata la divaricazione sistematica tra comunicazione (approvata ma regolamentata) ed espressione (marginalizzata). Regna, nella borghesia occidentale, una forte autocensura ideologica. Noi borghesi democratici e “corretti” siamo stati sottilmente manipolati fino ad aver paura della nostra ombra — dico: del nostro lato in ombra, che è parte indissolubile della nostra personalità.
Noi individui “corretti”, insomma, siamo stati incessantemente martellati fino al punto di temere, non dico di esprimere, ma nemmeno di pensare, pensieri considerati (ma da chi?) “scorretti”: sui rapporti razziali, sui rapporti fra i sessi, sull’aborto, sui matrimoni omosessuali, sulle occupazioni di territori in Medio Oriente, ecc. ecc. (“Thoughtcrime”, diceva Orwell.) Questa autocensura, alla lunga, crea il problema proprio di tutte le forme di autocensura: una sorda ribellione alla mascherata, la quale non può manifestarsi alla luce del sole, e scorre in noi come un fiume sotterraneo che occasionalmente si sfoga in piccoli rivoli laterali di irritazione depressiva. Nella lista appena abbozzata (che naturalmente può essere molto allungata) di temi su cui siamo spinti a intrattenere pensieri e parole “corrette”, ci sarà per ognuno di noi almeno un punto di “scorrettezza” (diverso a seconda del diverso individuo) — un punto in cui lui/lei sente dentro se stesso/a che la sua posizione non è “corretta”; ebbene, questo dovrebbe essere il punto da accettare, da rendere esplicito senza autocensure — il punto da cui partire per una diversa visione del mondo.
L’altro giorno un amico mi ha raccontato un suo sogno – in effetti, un incubo. Ha sognato di trovarsi in una società (città, regione, nazione?) articolata in varie comunità diverse, una delle quali era la comunità dei falchi. Avendo compiuto involontariamente un’azione che aveva suscitato la disapprovazione di questa comunità, aveva ricevuto una punizione: uno dei falchi gli si era appeso all’orecchio e vi era restato attaccato, divenendo così una parte integrale del suo corpo. La sola speranza del sognante era che, se avesse accettato docilmente questo castigo e si fosse comportato bene, a un certo punto il falco sarebbe volato via.
Lui camminava dunque per la città occupandosi delle sue faccende e cercando di comportarsi come se nulla fosse, ma sempre con quel peso attaccato all’orecchio (dopo il sogno, non ricordava se fosse il destro o il sinistro). Anche le persone con cui veniva a contatto (una barista al caffè, un farmacista, ecc.) si comportavano diplomaticamente, fingendo di non trovare nulla di straordinario in quest’uomo con un falco pendente dall’orecchio. (Se ne distinguevano solamente, mi spiegava poi lui, due grandi ali verdi, più simili a quelle di una farfalla che a quelle di un uccello.) Ma intanto la paura e la tensione erano continue — tanto è vero che, risvegliatosi dal sogno nella notte, si era toccato ripetutamente i lobi delle orecchie per accertarsi che non vi fossero presenze estranee; e solo allora aveva potuto riaddormentarsi.
Quell’amico non mi ha chiesto di interpretare il sogno, e io non mi sarei nemmeno… sognato di farlo anche se me l’avesse chiesto: raccontare un sogno — e ascoltarlo — è già abbastanza faticoso per non aggiungervi la fatica dell’ermeneutica , magari con rinforzo di riferimenti letterari (Coleridge, Kafka, e via dicendo). Ma fra me e me mi dicevo che il senso di oppressione che quell’incubo mi aveva comunicato (anche così, di seconda mano) mi ricordava l’oppressione — che sento più fortemente ogni giorno che passa — del “politically-correct-speak”. La banalizzazione eufemistica rappresentata da questo termine è in fondo una mossa disperata per evitare di guardare in faccia alla realtà. L’autocensura costante è un avvilimento dello spirito che può portare a una piccola morte interiore dentro ogni singolo — il quale così dimentica di essere singolo, dimentica la pienezza della sua persona.
Non sono un eroe, e parlando di “resistenza e isolamento” non intendo misurarmi con motti come quello di Resistenza e resa, il titolo della raccolta di scritti del grande testimone all’estremo Dietrich Bonhoeffer. Ma noi non viviamo (come invece viveva, e com’è morto, Bonhoeffer) sotto un regime pienamente totalitario; e allora non è questione di coraggio eroico, ma di un minimo di coerenza nel difendere un pensiero non-unico, nell’assicurare la tutela di posizioni realmente diverse — insomma, nel coltivare un’autentica libertà d’espressione. L’alternativa alla “correttezza” di cui sto parlando non è la scorrettezza, cioè il ribellismo, la polemica chiassosa e simili. Forse è solo questione di insistere con calma; e se il prezzo da pagare per questa insistenza è un periodo piuttosto lungo di isolamento — beh, si tratta di un prezzo tollerabile.

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