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È tutta questione d’anima, e devozione: amore come cultura, cultura come sapere, sapere come potere

È notizia di fine giugno. Le iscrizioni alle facoltà umanistiche dell’università italiana stanno progressivamente calando. Un calo che riguarda anche altri paesi europei e gli Stati Uniti, ma è particolarmente notevole in Italia, dove in 10 anni gli studenti delle “aree umane” sono diminuiti del 26,8%. Nelle materie di “area sociale”, sociologia per intenderci, l’emorragia è ancora maggiore: il 28,7%. Nel 2003 gli iscritti erano 135mila, quest’anno 96mila. Un fenomeno che si inscrive nella più generale sfiducia verso la formazione universitaria, per cui dal 2004 le immatricolazioni sono diminuite del 20,6%. Leggiamo su “la Repubblica” del 27 giugno scorso: “Cosa stiamo perdendo? Le nostre radici, il senso dell’esistere, l’identità, la storia, il ragionamento? Adesso sono le grandi università americane a dire che così non va, ad appellarsi agli studenti perché riscoprano i saperi classici”.

Cosa fare con una laurea in Storia, ad esempio? Carlo Maria Cipolla, uno dei maggiori storici economici che abbiamo potuto vantare a livello internazionale, tradotto in molte lingue, scriveva nel 1994 che “un popolo che non conosce la sua storia è […] un popolo che non conosce se stesso e che avrà difficoltà a risolvere i problemi che deve affrontare”. La storia insegna alla politica, e lo stesso dicasi per la filosofia e tutte le scienze umane. Una classe politica totalmente priva di cultura umanistica è la più passiva e sussiegosa o inefficace verso l’esistente. L’attualità nostrana ce lo conferma.

C’è una meravigliosa canzone di Billy Joel, che rarissimamente esegue nei concerti. È contenuta nel fortunato album del 1993, “River of Dreams”. Si intitola “All about soul”. Potrei tradurre con “è tutta questione di anima”, ma stavolta preferisco l’originale inglese per un testo che è perfettamente amalgamato con una musica straordinariamente ispirata, trascinante in una escalation di entusiasmo d’amore e di una particolare fede sentita vibrare dentro le vene per le vie della carne, per la vicinanza fisica e spirituale di una donna amata-amante. Riporto un paio di strofe: “she turns to me sometimes / and she asks me what I’m dreaming / and I realize I must have gone / a million miles away / and I ask her how she knew / to reach out for me at that moment / and she smiles because it’s understood / there are no words to say. / It’s all about soul / it’s all about knowing what someone is feeling. / The woman’s got soul / the power of love and the power of healing. / This life isn’t fair / it’s gonna get dark it’s gonna get cold / you’ve got to get tough but that ain’t enough / it’s all about soul”.

Un’estasi pagana che sgorga da una preghiera gospel di ringraziamento per il sesso gentile ma tutt’altro che debole. Si canta la donna salvifica di un uomo facile alla deriva, forte soprattutto se e quando amato con piena devozione. L’amore, dunque, come devozione non sorda e cieca, tanto meno ottusa, semmai e più che mai intelligente, per questo talvolta silente, perché tutto è chiaro a chi conosce l’altro, quell’altro convissuto e amato. Ma l’amore è anche, e proprio per questo, cultura, coltivazione di sé e degli altri, non genericamente intesi – altrimenti è mascheramento ipocrita di narcisismi politicamente “impegnati” –, quanto piuttosto di “altri” che sono stati scelti con consapevolezza e inevitabile assunzione di responsabilità. L’etica che nasce dal volto dell’Altro che è presenza con nome e cognome, che mi guarda e mi riguarda, che “mi parla e mi invita ad una relazione che non ha misura comune con un potere che si esercita, foss’anche godimento o conoscenza”. Così parlava il filosofo Emmanuel Lévinas. Eppure, tramite godimento e conoscenza si può andare oltre, più addentro. Una via non osta l’altra. E c’è potere e potere.

La cultura è anzitutto sapere, acquisizione di conoscenze, di quel patrimonio di conoscenze che filosofi, scrittori, storici, poeti e artisti vari hanno scovato tanto dall’osservazione quanto dall’invenzione. Oggi si parla molto di competenze in ambito educativo. Secondo la “Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio sulla creazione di un Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente”, competenza è “la comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro e studio e nello sviluppo professionale e personale”. Ma il prerequisito resta sempre quello di acquisire conoscenze e abilità che l’università, e ancor prima la scuola, deve continuare a trasmettere, come e più efficacemente di quanto fatto in passato.

Il conflitto fra didattica per competenze e didattica tradizionale per conoscenze è un falso problema. Si tratta solo di rendere operativo il sapere appreso nelle scuole e nelle università. Francesco Bacone, il filosofo che inaugura l’età della tecnica, era ben conscio che il sapere è uguale al potere, dal momento che la natura è dominabile solo se la si conosce, quindi l’uomo tanto può quanto sa. La tecnica è originariamente sapere applicato, tradotto in opera. A chi mastica un po’ di filosofia, è poi noto come Bacone sia stato incolpato da Adorno e Horkheimer di aver per primo dispiegato la logica di un illuminismo inteso dai due francofortesi come dominio della ragione strumentale e, infine, dominio dell’uomo sull’uomo. Rispetto a Marx e al primo marxismo, la Scuola di Francoforte e le sue derivazioni, che tra anni Sessanta e Settanta hanno conquistato larga parte della sinistra accademica, hanno prodotto una critica demolitrice del pensiero scientifico, contribuendo a scollegare quelle due culture, l’umanistica e la scientifica, la cui incomunicabilità Charles P. Snow, chimico per formazione e romanziere per vocazione, denunciava già a fine anni ’50. Divisione e incomunicabilità che ancor oggi scontiamo in Europa, e nell’università italiana più che mai.

Dunque, sapere è potere, e potere significa operare, sperimentare, inventare per fugare il più possibile il senso della paura che attanaglia l’uomo e lo rende schiavo, della natura e di chi, come i ministri di ogni culto o sapere esoterico, se ne erge ad esclusivo e interessato interprete. Bacone è alla radice della convinzione che la cultura debba essere al servizio dell’uomo, strumento di costruzione di un mondo meno insicuro e perciò meno violento. Meno paura più libertà, anche tra uomini e donne. Siamo ben lungi da oscuri disegni di dominazione antidemocratica e sfruttamento umano e ambientale.

A chi conosce, da studente o da docente, da persona comunque attenta, la realtà di molte facoltà di scienze umane e sociali viene subito da chiedersi quanta responsabilità nella loro perdita di ruolo e credibilità pubblica sia da addebitare a non pochi di coloro che dall’interno le hanno dirette e gestite negli ultimi decenni. Forse Alberto Asor Rosa farebbe bene a non lamentarsi troppo dell’attuale situazione di “tragico abbandono” in cui sarebbero state lasciate le facoltà umanistiche italiane dai governi susseguitesi negli ultimi dieci anni. Giustamente, intervistato su “la Repubblica”, si chiede: “Come si fa ad appassionare gli studenti verso questi corsi di studio se il messaggio che passa è che si tratta di studi residuali, di un mondo che non c’è più, sui quali non vale la pena di investire?”. Ma dovrebbe anche chiedersi quanto male abbiano fatto agli insegnamenti di letteratura, storia e filosofia la politicizzazione estrema, la partigianeria discriminante ed escludente impartita per decenni dalle cattedre di tutte queste discipline, al servizio del successo machiavellico di una fazione e non della verità o della sua ricerca. Abbiamo avuto molti maestri simili al Capitan Uncino dell’omonima canzone di Edoardo Bennato: “Sono o non sono il Capitan Uncino? / E allora avanti col coro! / Cantate tutti con me e ripetete con me / gli slogan che vi ho insegnato! / “Veri pirati noi siam! Contro il sistema lottiam! / Ci esercitiamo a scuola a far la faccia dura / per fare più paura! / Ma cosa c’è di male? / Ma cosa c’è di strano? / Facciamo un gran casino / ma in fondo lavoriamo per Capitan Uncino”. / Io sono il professore / della rivoluzione / della pirateria io sono la teoria, il faro illuminante. / Ma lo capite o no! / Ve lo rispiegherò / per scuotere la gente non bastano i discorsi / ci vogliono le bombe”.

E non “sono solo canzonette”, anche se questo era il titolo dell’album del 1980 contenente anche il Rock del Capitan Uncino. Parole simili, al di qua e al di là delle cattedre, sono risuonate per troppi anni in luoghi ritenuti erroneamente come i più deputati all’indottrinamento e al fanatismo, quando invece ne sono l’antitesi per definizione. Insegnare lettere, storia o filosofia significa proporre un invito ad intraprendere l’interminabile viaggio alla ricerca della verità, equipaggiandosi di quanto quelle materie offrono se avvicinate “sine ira et studio”. Né ira né pregiudizi, ma serenità nel dubbio e rigore nel metodo. Un insegnamento assai risalente, agli albori della storiografia, fra Tucidide e Tacito.

Il francofortismo riecheggiato a lungo tra le aule delle facoltà umanistiche ha contribuito a martoriare ogni fiducia nella ragione e nel progresso tramite scienza e industria. Fascinosa lezione, quella di Adorno e Horkheimer, che ha trasfigurato il marxismo classico che contava su scienza e tecnica per il miglioramento della condizione umana e le considerava neutrali rispetto a proletariato e borghesia. Dipingere come “borghesi” sia scienza che tecnica, ma anche un certo modo di fare arte e letteratura, storia o filosofia, ha significato per anni marchiarle a fuoco con lo stigma dell’ingiustizia e di un’oppressione perpetrata a vantaggio dei soliti “happy few”. E così via libera all’irrazionalismo antisistema, e poi al sociologismo giustificazionista, e infine al balbettio nullista. All’origine una lezione a suo modo fascinosa perché romantica, di quel romanticismo che sognava mondi perduti e aborriva la modernità giunta assieme ai primi treni a vapore. Ma la logica conseguenza è stata: sconnessione dalla realtà, suo rifiuto e rifugio in vite dissociate tra il dire contro e il fare indifferente o svogliato. I percorsi formativi e professionali di quelle facoltà universitarie anche di questo hanno risentito nel lungo periodo.

Ma c’è romanticismo e romanticismo, diceva Isaiah Berlin. E si potrebbe così scoprire che amore e potere, per la proprietà transitiva di una serie di non troppe bizzarre relazioni qui instaurate, stanno tra loro in comunione d’intenti, e non tanto nel volgare senso oggi più che mai in voga massmediatica delle lenzuola che introducono al potere, o ne decretano la fine per scandalo o sexygate, quanto nel più alto senso che puoi fare bene se ami quel che fai. È tutta questione di anima, di amore che è cultura, di cultura che è sapere, di sapere che è potere. E potere non è solo il dominio egoistico e oligarchico, ma è anche la voglia di migliorare ciò che mai giunge e resta all’altezza dei sogni umani di dignità e benessere. È una lotta che si rinnova ad ogni generazione. La crisi odierna ce lo ricorda.

Di tutto questo l’università, italiana, europea ed americana, specie nelle sue facoltà umanistiche, non può non avere consapevolezza piena e fattiva, altrimenti non ha senso di esistere, viene meno alla propria ragion d’essere, alla propria funzione pubblica. Per cui, prima e assieme all’adozione di politiche pubbliche e private di contrasto all’attuale emorragia di iscritti, chiediamo ai docenti di essere devoti alla loro vocazione, che è anche una professione ma è anzitutto un amore da loro scelto, che richiede devozione. Amore, cultura, sapere, potere. Di questa complessa catena di uguaglianze i professori dovranno essere i trasmettitori entusiasti, nella consapevolezza che “tutto ciò che non si condensa in un’equazione non è scienza”. E qui è parola di Albert Einstein.