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A Washington o a Pechino: dove il destino del mondo?

Da mesi si attendeva l’esito delle elezioni presidenziali americane, e la sfida tra Barack Obama e Mitt Romney ha visto infine la vittoria del presidente uscente. Resta però da chiedersi se sarà più determinante per il futuro del sistema delle relazioni internazionali e per l’andamento dell’economia mondiale la vittoria di Obama, oppure quanto è stato deciso da un evento iniziato altrove all’indomani dell’Election Day e conclusosi una settimana dopo.

È stato un evento assai meno illuminato dai riflettori dei media occidentali, eppure potrebbe essere assai più influente sui nostri destini. Stiamo ovviamente parlando del 18° Congresso del Partito comunista cinese, durante il quale, fra l’altro, sono stati ufficializzati i nomi del nuovo presidente e del nuovo premier di quella che oggi è la seconda economia del mondo, e che potrebbe diventare la prima entro un decennio circa. Il cambio della guardia a Pechino viene deciso ogni dieci anni, ma di fatto certe decisioni attuali sono state impostate cinque anni fa, nel Congresso del 2007, e hanno ora trovato conferma con l’elezione del nuovo Comitato centrale.

Xi Jinping: questo è il nome del nuovo Segretario generale del Partito, nonché futuro presidente della Repubblica popolare cinese che entrerà in carica nel marzo 2013. Subentrerà a Hu Jintao. Li Keqiang sarà invece il nuovo premier, in sostituzione dell’uscente Wen Jabao. La nuova classe dirigente sarà chiamata ad affrontare alcune priorità. Tra queste vi sono la necessità di riequilibrare i fattori di crescita dell’economia nazionale, che andrà resa meno dipendente dalle esportazioni, di orientare la produzione verso un più alto valore aggiunto, e infine di ridurre il peso delle aziende di Stato, spesso inefficienti. In ogni caso, tutto dovrà essere deciso dall’interno dell’apparato partitico. Solo dentro quel contesto si possono sollevare obiezioni, non fuori. Secoli di tradizione confuciana hanno forgiato questo tipo di meccanismo di trasmissione di autorità e di processo decisionale: l’armonia dello Stato dipende dalla cieca e fattiva obbedienza dei suoi membri alle autorità.

Si parla spesso, a proposito del deficit democratico delle nostre istituzioni europee e occidentali, di una mancanza di trasparenza nei processi decisionali. Se però cerchiamo una versione aggiornata degli antichi arcana imperii, dobbiamo senz’altro guardare alla Cina. A parte i nomi appena citati, sappiamo poco altro. Si è mormorato di una lotta intestina all’interno del Comitato permanente del Politburo, vertice assoluto della piramide del potere cinese, ma le notizie si intrecciano e si confondono. Da più parti si è denunciato questo occultamento di notizie complete ed esatte, questa mancanza di trasparenza. In effetti, il Partito comunista cinese è oggi “l’organizzazione politica più elitaria del mondo”, come ci ricorda Fareed Zakaria, ex direttore di “Foreign Affairs” e dell’edizione internazionale di “Newsweek”, attualmente conduttore del più importante programma di politica internazionale della CNN.

Dal canto loro, gli Stati Uniti sono oggi il maggior debitore nell’economia mondiale. Se ciò rende la potenza americana molto vulnerabile, la situazione non appare migliore per chi si trova ad essere un suo grande, grandissimo creditore, quale la Cina in effetti è. In sintesi, si tratta ormai di due economie così interconnesse che si inizia a parlare di “CinUsa”, e c’è persino chi attende che gli investimenti cinesi in America possano rivitalizzare l’economia a stelle e strisce.

Questa annotazione serve a porre in forma dubitativa ciò che da più parti sembra già scritto come un destino ineluttabile: saranno cinesi i nuovi padroni del mondo? Il ventunesimo secolo parlerà dunque cinese? Difficile dirlo, e ogni buon storico o politologo farà bene a ricordarsi che il suo mestiere non è quello del profeta. Detto ciò, resta allettante la possibilità di azzardare qualche pronostico. Con certezza si può dire che sull’innovazione si giocherà la partita decisiva per quel che concerne il futuro dei sistemi economico-produttivi di Stati Uniti e Cina. E certo è che l’innovazione richiede, ancor prima della ricerca, la predisposizione mentale, direi quasi esistenziale, ad essa. E torna in ballo ciò su cui ho insistito anche in altri interventi: l’educazione, qui da declinarsi specificamente come istruzione.

Da un lato, ha probabilmente ragione Zakaria nel ricordare che, nel suo complesso, “il sistema americano è molto migliore, in quanto insegna agli studenti a pensare, a risolvere i problemi e ad amare l’istruzione per tutto il resto della loro vita”, e che l’apprendimento è giustamente qui considerato “un processo costante e senza fine, e non fa vergognare nessuno in caso di fallimento”. I sistemi educativi asiatici, cinese ma anche giapponese, come pure quello indiano, sono così rigidi da risultare in certi casi persino spietati, e, com’è noto, associati ad un’etica dell’onore (e del disonore) che solo in parte responsabilizza; in molti casi rischia solo di non insegnare a perdere, ad accettare la sconfitta, inducendo invece a pensarla e viverla come se si trattasse di qualcosa di definitivo e irreversibile. L’onta subita rischia di essere così grande da paralizzare ogni speranza di riscatto futuro.

Si pensi all’impatto emotivo e psicofisico che provoca il famigerato Gaokao, il rigoroso e complesso esame d’ingresso all’università cinese. Sono del maggio scorso le immagini via web di studenti attaccati alle flebo per non lasciare l’aula e gli studi in preparazione del fatidico esame d’ammissione che si svolge ogni anno a giugno. Per evitare che gli studenti rubassero tempo agli studi, dovendo andare dalla loro classe alla clinica, la scuola ha dato il via libera affinché potessero farsi direttamente le iniezioni di amminoacidi in classe. Gli amminoacidi in endovena servono loro per avere più energia possibile, per aiutarli nello studio ed evitare crolli o collassi. La pressione che grava sugli studenti cinesi è costante, fino a diventare insostenibile durante l’ultimo anno delle superiori, quando capita spesso che a molti studenti non venga concesso nemmeno di riposare durante il fine settimana. Anche nella stessa Cina hanno cominciato a levarsi voci di protesta nei confronti del Gaokao, il quale sembra richiedere solo apprendimento mnemonico e mancanza di creatività individuale.

Dall’altro lato, però, va ascoltato con attenzione David Daokui Li, direttore del Center for China in the World Economy presso la Scuola di economia e amministrazione dell’Università di Tsinghua a Pechino. Li, che è anche un delegato del Congresso del popolo di Pechino e membro della Conferenza politica consultiva del popolo cinese, fa presente agli osservatori occidentali che il governo cinese sta investendo tantissimo in istruzione e qualificazione dei propri giovani. Migliaia di studenti stanno frequentando le più prestigiose università americane, inglesi ed europee. Rende altresì noto che in Cina sono già stati compiuti sforzi prodigiosi per creare nuove tecnologie destinate alla conservazione delle risorse e per promuovere l’efficienza energetica, che, detto per inciso, rischia di diventare un grave problema per un colosso di quasi un miliardo e mezzo di abitanti e consumatori crescenti. Questi dati non vanno letti solo come la propaganda di un autorevole intellettuale cinese che è, sì, occidentalizzato, ma non fino al punto di rinnegare il fiero nazionalismo di regime. Gli fa eco, infatti, Niall Ferguson, professore ad Harvard e autore di numerosi bestsellers, il quale ci ricorda un dato quanto mai significativo: si calcola che entro un paio d’anni la Cina supererà la Germania per numero di brevetti internazionali, e che ciò avverrà “grazie al prodigioso sforzo compiuto dalle istituzioni scolastiche e accademiche cinesi”.

Alla base vi sono due modi diversi di intendere il mix di fattori necessario a innescare duraturi processi di innovazione entro una data area geopolitica. Sempre secondo Zakaria, c’è qualcosa nel sistema socioculturale statunitense che favorisce perlomeno la persistenza di un clima favorevole all’innovazione: i cittadini hanno la possibilità di mettere in discussione la gerarchia. Al contrario, ai piedi di una ristrettissima (rispetto ai mostruosi numeri demografici del Paese) élite di neomandarini ai vertici del Partito e delle sue strutture sottostà una massa enorme di contadini, con livelli bassi di istruzione e opinioni rigorosamente filtrate da un occhiuto sistema di censura a più livelli. Secondo alcuni dati, il governo cinese avrebbe alle proprie dipendenze circa un milione di persone incaricate di monitorare la rete a scopo di censura. Persino gli sms sono sottoposti ad un rigido controllo!

Quanto è stato celebrato nei giorni scorsi a Pechino con il 18° Congresso del PCC testimonia non solo un ritardo, ma persino un arretramento rispetto a cinque anni fa, quando furono compiuti alcuni passi, pur lenti e limitati, in direzione di una riforma politica. Lenti e limitati, ma reali e concreti. Le procedure di selezione e nomina dei massimi vertici politici della Repubblica popolare cinese potrebbero arrivare, tra non molto, a stridere violentemente con un’economia che ha ripreso a crescere perché, questa sì, riformata, anche in direzione di un relativo ridimensionamento della presenza statale nel settore produttivo.

Difficile dire se sarà questo doppio livello di velocità l’elemento di frizione da cui potrà scaturire un mutamento repentino, tale da mettere in squilibrio l’immenso assetto politico e burocratico cinese. Secondo alcuni osservatori, il modello cinese si è solo limitato ad anticipare l’evoluzione del capitalismo del nuovo millennio. Ed è in tal senso meritevole di particolare attenzione e profonda riflessione quanto asserito ad esempio da Giacomo Marramao, secondo il quale, a livello globale, “il capitalismo sussiste ormai unicamente attraverso un coagulo di forme di potere di tipo neo-corporativo e neo-feudale”. Marramao riscontra l’emergere di una vera e propria “corporativizzazione del capitalismo, cioè esattamente il contrario di quanto sostiene la dottrina neoliberista secondo cui avremmo uno Stato che ingabbia i poteri economici espressione della libertà umana”.

La verità sarebbe dunque che “i poteri economici sono molto più feudali di quanto non siano gli Stati e quindi, sì, il capitalismo ha bisogno di rappresentarsi in una chiave feudale e corporativa”. Se così fosse, la Cina di oggi potrebbe essere la fotografia di un futuro assetto economico e politico per chiunque voglia essere vincente sul mercato mondiale? Non spingiamoci sino alla fantapolitica. L’unica certezza è che non possiamo scommettere su una imminente crisi sistemica cinese sulla base di parametri e criteri di valutazione che siano stati ricavati esclusivamente dal nostro contesto politico-culturale.

A separarci c’è una sorta di anthropological divide, profondo e ignoto ai più, a causa di una lingua complessa e di un background religioso troppo sfuggente ad un monoteista. Per non parlare di un isolamento plurimillenario e di una tradizione imperiale altrettanto plurimillenaria, fiera e sinocentrica. Dalle nostre parti, dove il sole tramonta, sarà bene farsi aruspici del proprio destino interrogando le viscere di quel sistema che ha appena celebrato i riti di successione ad un trono che forse da sempre si è pensato imperiale, in un modo tutto suo, certo, ma anche un po’ nostro. Ed è forse in quel mix tra oriente ed occidente che una parte del destino politico del mondo si annida.